Segnalato al Concorso Nazionale Gastaldi 1949, Gastaldi 1949) (18 agosto 2022)
Proponiamo qui di seguito un ampio estratto da La partenza, racconto tratto dalla raccolta Allegro ma non troppo (20 novelle) di Filippo Petroselli. A completare il testo, le note di Rosa Rossi, nipote dello scrittore, rievocano i luoghi reali che fecero da sfondo alla novella e offrono una riflessione sulle vicende che possono averne ispirato la scrittura. Il suo sguardo aiuta a cogliere il legame tra vita vissuta e creazione letteraria.
La partenza
«Le solite esagerazioni! …» esclamò con un sorrisetto agrodolce il professore togliendosi gli occhiali e chiudendo la rivista che aveva finito di leggere mentre il suo uomo, dritto davanti alla scrivania, aitante e saldo come tronco di quercia scapitozzata ed annerita dal fulmine, aveva parlato.
«Le solite esagerazioni di voi… di noi…» ed alzò gli occhi per frugargli con una certa malcelata ansietà nello sguardo.
Con quel voi voleva certamente intendere contadini, pastori, carbonai, macchiaiuoli, campagnuoli in genere … Con quel noi, cacciatori soltanto.
Il mobile sguardo del carbonaio che lampeggiava tra le nere ciglia cariche di polvere, come quello degli attori, nella faccia buia di pulviscolo, si fermò e resse allo sguardo investigatore che lo scrutava come in notte di guerra un riflettore la montagna selvosa e malfida.
«Dunque … son calate? …» interrogò il medico addolcendo la faccia fino allo scintillio d’un sorriso, mentre festosamente giocherellava con pollice ed indice col primo bottone del candido camice.
«Stamane ne ho viste rientrare sei o sette coppie! … sa bene che roba da penna non è per i miei denti … se c’era lei …!» ed assunse un’aria buffa di compunzione, abbassando le palpebre e diventando così tutto buio.
Il medico abituato ai doppietti perfino ai beccaccini, apri la faccia ad un bonario sorriso di commiserazione.
«Nei cedui di quattr’anni ogni dieci passi, un frullo! … – soggiunse l’informatore rialzando lo sguardo appassito – poi … stanotte ha fatto due goccie d’acqua e la foglia non fa chiasso … È come un tappeto!»
«È caduta tutta?»
«Quasi tutta. E lei… lei non ne sbaglierà una! s’alzano così grosse e grasse … Galline! Non beccacce volo da vergini …»
La faccia del medico già quasi attonita e beata per l’imminente e così raro piacere venatorio, si contrasse in una curiosa smorfia di amarezza:
«Eh! … non sarà come al solito? Prima fate fare a quelle disgraziate maratone e maratone coi segugi a canizza, le sveltite con sventagliate di pallini storti, fate far loro un corso accelerato di furberia … e poi, quando … quando son diventate diavolesse irraggiungibili anche per il loro demonio, signore e padrone … allora venite …»
Il carbonaio che altre volte, a diffidenze simili, era scappato qua e là per la stanza con l’occhio malsicuro, lo fissò ancora.
«Dunque… è proprio vero?»
«Vangelo!» e si portò la grossa, nera mano al petto e la premette a giuramento.
La faccia rosea, di uomo forte e gentile, del medico divenne lucente. Si tirò lo spazzolino dei baffi con manifesto piacere. Quel pezzo d’uomo piantato là davanti, che aveva tirato un paio di volte fuor della tomba ed al quale aveva regalato tanti rari campioni di medicinali per moglie, figli, parenti e conoscenti, no! non poteva ingannarlo.
«Piuttosto, Signor Professore, bisogna sbrigarsi… è mezzogiorno, giornate corte… è domenica… troppa gente in giro … girano oggi tanti di questi ragazzacci … se se n’accorgono, s’arriva che hanno sparecchiato … o meglio hanno già fatto far loro le maratone che dice lei … ed allora …»
Chiusi in fretta nell’astuccio gli occhiali, e sfilatosi il camice mentre s’alzava, lo gettò al carbonaio che l’afferro a volo, dicendogli: «Va di là! svelto, dì a Savina che prepari alla meglio, in cucina, subito due uova al tegame per ciascuno … alla svelta! … un pezzo di formaggio, un bicchiere e si parte … Tu mangia subito… ché io, intanto, telefono al maestro … e … mi cambio …»
* * *
«Aoh!»
«Aoh!»
«Che novità?!»
«Gran volo!»
«Le solite storie! …»
«Ti dico, è una vera calata! poi stanotte lassù ha piovuto e la foglia è un tappeto …»
«Chi te l’ha detto? … quel solito spilungone di carbonaio! Ah! Ah! Ah!»
«Nei cedui di quattro anni si alzano ad ogni passo … la vuoi capire? – batté impazientemente un piede – … e sbrigati! se no ti pianto! non senti oggi che fresco dopo tanto brodo di scirocco! sbrigati! …»
«Aoh! Aspettami! non mi piantare! … mangerò un boccone per istrada … dieci minuti e sono da te di corsa! Sai che il grasso non mi pesa …» «Caterina! Caterina! Caterinaaaaa! …»
* * *
Mentre però il medico allacciava il microfono ove gorgogliando affogava l’ultima vocale di quella povera signora, il campanello della porta squillò.
Divenne buio e restò a fiato sospeso in ascolto, con l’orecchio verso l’anticamera.
«Si accomodino! … favoriscano!»
Con una smorfia di disappunto che ricordava quella del bracco quando in piena cerca s’imbatte all’improvviso con l’aspide a due palmi dal naso, cercò d’istinto il camice per indossarlo in fretta: ma il carbonaio se l’era portato via.
Appena la porta s’apri, dopo uno sguardo fulminante alla cerimoniosa cameriera, ricompose Ia faccia ad un benevolo sorriso e si sedette alla scrivania invitando a due mani le clienti a sedere.
«Un po’ di storia …»
«Uhm? …» Madre e figlia, la paziente, si guardarono come per interrogarsi.
«Voglio dire una storia … qualche notizia, insomma, delle malattie sofferte… della malattia attuale… breve! … brevissima! …»
La ragazza arrossì vincendo in tutta la faccia il belletto e non riuscì a spiccicar le labbra che sembravano due petali di rosolaccio appena colto.
L’energica madre dal naso adunco sempre in cerca della bocca, le venne in soccorso: «Suvvia! Parla! Parla! solo a casa sapete sciogliere lo scilinguagnolo! …»
«Veramente malattie vere e proprie non ne ho avute …» Tacque.
La madre proseguì scolpendo la faccia di briglie: «Vorrei sapere da chi hai preso tutta questa timidezza! Stupida! da me no davvero. forse da quel … di tuo padre … Stia attento! glielo dico io … da piccola ha avuto la scarlattina e la rosolia, a sedici anni I’influenza …»
«Non l’influenza! – corresse – balbettando la paziente – il medico disse febbre reumatica!»
«Ed allora, se lo sai meglio di me… parla, parla tu! l’hai capita? tira fuori il fiato e non far la scema che altro non sei!»
Visto che la faccenda della storia cominciava ad inasprirsi e ad andar per le lunghe, cercò di conciliare: «Influenza o febbre reumatica, veda signora poco importa … null’altro signorina?»
«Non mi sembra …»
«Ed allora mi dica in breve in che consiste l’attuale malattia e quando cominciò. Su! coraggio!»
«Saranno tre mesi che soffro di vertigini, tremori, mal di capo, insonnia …»
«… E mi dica … vi fu una causa, per esempio uno spavento, un dispiaceruccio …» pronunciò il diminutivo sottolineandolo con un significativo sorrisetto.
«Sa … – interloquì la grinfiosa signora come per stornare la risposta mentre l’adunco naso quasi raggiungeva la bocca – … lo sa che questa stupida non vuole più attraversare una piazza da sola, che bisogna prendersela sottobraccio e spingerla… Mi dica lei che razza di capricci …»
«Veramente non sono proprio capricci … signora … purtroppo! – corresse il medico guardandola un po’ severo – faccia parlar la signorina stessa perché è lei, solo lei che … dicevo dunque … Ecco vorrei sapere insomma se lei ha avuto qualche spavento o qualcos’altro del genere»
Il medico attendeva con impazienza tamburellando sul tavolino per smorzare il sommesso e per lui tanto dolce tintinnio dei vetri sotto il fiato della tramontana che gli faceva correre nelle vene un intimo brivido di piacere. Sentiva l’alito fresco del vento sonante tra le folte e nude ceppaie ed i fili dei verdissimi isolotti di scope. E socchiudeva a mano a mano senza accorgersi gli occhi mentre le narici s’aprivano a quel misterioso e per lui inebriante odor di foglia morta, di funghi, d’umidità, di scorze e di muschio che emana dalla macchia cedua di castagno, quando, appena nuda, è lì per addormentarsi.
Si riebbe d’un tratto e a voce quasi ruvida, così rara in lui, incalzò: «Su! dunque, signorina si sbrighi! … mi dica … ho un consulto urgente. Son le dodici e mezza …»
Guardò, l’orologio ed una tenue nube di rossore gli attraversò la faccia.
La ragazza arrossì anche lei, e guardando un po’ timorosa la madre come per avere il permesso di proseguire, pronunciò tra i denti tre sole parole: «Un pomeriggio … mentre …»
«Parla! parla!… vorresti dire… seguita pure! e se non seguiti tu parlo io … – soggiunse la madre fiammeggiandola con gli occhi – te l’avevo pur detto tante etante volte: «Non voglio che tu stia alla finestra! …» e vedrai che il signor professore che è padre di famiglia, mi darà non una, ma cento, centomila ragioni …»
«Sia! parli allora lei! ma breve! sia breve! le ricordo che ho fuori un impegno …» E battè con un tacco sul pavimento.
«Vorrebbe … ecco, insomma, questa sciocca farle credere …» Guardò la figlia. Ma quella, ormai fuor d’impaccio, tolto su specchietto, piumino e matita dalla borsetta, s’andava ritoccando con ogni disinvoltura.
«Vede a che son buone le ragazze d’oggi! … lo vede? dica lei! … dice che lo fa perché è pallida, per l’anemia … e questa anemia, secondo ‘lei, dipenderebbe da quell’improvviso …»
Si frenò e tacque.
«Dunque? … – Invitò il medico non molto incuriosito, poiché friggeva, friggeva sentendo lontano, oltre le porte, l’uggiolare ed il guaire dei cani che, avendo visto il carbonaio e sentito il suo odor di bosco, sapevano per esperienza ciò che significasse per loro dopo quindici giorni
di angusta terrazza dalle sbarre di ferro come una prigione.
«Un improvviso? …» incalzò afferrando lo stetoscopio e picchiando sul tavolo.
«Come dirle? … »
«Dica! dica come vuole! …. come crede meglio! … ma si sbrighi! le ripeto, ho fuor di città un consulto urgente. Le diede uno schiaffo?»
«No»
«Ma che cosa altro mai?!»
«Uno? … Suvvia! su svelta! le ripeto ho …»
«Uno sculaccione! …» Disse la parola in fretta, come per liberarsi le spalle da una pietra. Quindi, ripreso ardire, ripeté: «Sì un sonoro, sonorissimo sculaccione …»
Il medico non poté resistere ad un sorriso che né figlia, né madre avvertirono. Questa, ritornata fiammante, stava considerandosi la ragazza la quale, riposto in fretta piumino e matita, e diventata color dell’arcobaleno, sfuggiva lo sguardo un po’ pungente del medico che s’alzava di scatto.
Le ascoltò pochi attimi il cuore, saggiò col martellino i riflessi delle ginocchia, la tenne un po’ sull’attenti ad occhi chiusi, le fece fare un breve andirivieni, le tirò in basso le palpebre inferiori; ma tutto ciò alla svelta, ché, da lontano, incalzava il duetto dei cani ansiosi e gioiosi che assolutamente nulla diceva a quella madre ed a quella figlia; ma tanto a lui.
«Niente! Signora! Signorina, guarirà perfettamente in breve … Prenda prima dei pasti un cucchiaino di… Eccole la ricetta! È un ottimo preparato … rasserena, fuga le nubi …»
E, ritornato a sedere, scrisse in fretta, asciugò e porse il foglietto, staccato con ruvido gesto dal ricettario, alla madre. Per sbrigarsi non sonò alla cameriera e s’alzò per accompagnarle
lui stesso alla porta; ma la madre indugiava presso la scrivania frugando nel portamonete e borbottando: «Faremo cosi, professore, tempi difficili! Nessuno paga… la campagna dà poco … »
«Faccia come vuole! faccia come crede – incalzò un po’ ruvido non guardandola nemmeno – … sa che ho un …» e s’avviò alla porta con la figlia.
Ma la madre raggiungendolo cominciò a tempestarlo di domande: «Quella medicina è roba buona? le farà proprio bene? è sicuro? …»
Il medico, senza risponderle, le aprì.
La figlia, sgusciata fuori, cominciò ad esortarla «Andiamo mamma! Non vedi che il professore ha fretta? È tardi! È sonata l’una e un quarto … È ora di pranzo …»
Ma quella sorda, non riusciva a varcare la soglia.
Il medico allora, con dolce fermezza, la premette quasi fuori, rassicurandola con duri ma persuasivi sorrisi:
«Ottimo preparato! stia tranquilla, signora! l’ho provato mille volte …»
E mentre l’altra sul pianerottolo tentava ancor di parlare e la figlia ardiva tirarla delicatamente per una manica, accostò con un’indefinibile smorfia la porta e la chiuse senza rumore.
* * *
Volato in camera, si svestì con cinematografica fretta e rivestì di fustagno verde, calzò scarpe chiodate e gambali lucidi di sugna, e filò brontolando in cucina ove nel tegame aspettavano, ormai gelate, le due uova come due grandi occhi gialli ed attoniti. ·
I cani saltellanti e pronti, alla battuta delle scarpe chiodate del padrone, avevano cominciato un’assordante fanfara d’impazienza e di giubilo.
Si sedette e spezzati i due rossi con una crosta di pane, cominciò a mangiare con fretta vorace.
***
Ma un nuovo squillo imperioso di campanello gli fermò la mandibola. E restò col gonfio del grosso boccone nella guancia destra, ad occhi sbarrati e sperduti, come se fosse sonata per lui la misteriosa campana della morte.
«Il signor Conte! …» annunziò, con voce quasi canora, la cameriera compresa dell’importanza della visita, affacciandosi alla porta.
Il medico alzò al cielo gli occhi supplici, poi gonfi d’ira, ed a stento riuscì ad ingollare. Quindi incenerendola con occhiate, l’investi: «T’ho detto mille volte che così – si considerò da cima a fondo nello stinto vestito di fustagno qua e là sfregiato da strappi ricuciti — … che
così non ricevo più nessuno! nessuno! … fosse pure …»
E quella ad occhi bassi: «Ho provato … si figuri! … ho detto … ho cercato … ma quello, niente! m’ha risposto con energia che aveva appuntamento con lei … che lui non …»
Si frenò. Affondò tutte le rughe della fronte come per spremer fuori dalla testa tutti i profani pensieri; quindi addolcendo gradatamente la voce: «È vero… non ricordavo! … ma no all’una e mezza per Diana! no all’una e mezza! … ma è un vecchio!».
S’alzò, come spinto da una molla. Si considerò ancora una volta. Poi sollevando con violenza la spalla destra afferrò il camice posato su una sedia, se l’infilò in fretta,
ed abbottonatolo fino al collo, in punta di piedi s’avvio brontolando allo studio.
* * *
«Maledetta pressione! pressione maledetta! di quanto mal sei madre! …» brontolava tra denti, nel va e vieni dello stantuffo.
Per far presto, il più presto decentemente possibile, gli aveva contro il consueto e malgrado i dinieghi, tirato la giacca, sbottonato con premura il polsino e rimboccata con sveltezza la manica della camicia. Ed ora considerava l’afflitto vecchietto dall’aristocratico pizzo bianco, che a testa un po’ china fissava, d’una fissità strana e penosamente interrogante la lancetta dell’oscillometro la
quale avanzava un po’ a scatti, avanzava, avanzava sempre …»
«Non la guardi conte! non la segua! s’impressionerà … sa bene che questi son ordegni oggi in gran voga … ma non dicono che solo approssimativamente la verità …»
«Lo so, lo so bene! non la guardavo affatto … osservavo si figuri, quella mano nera nella sua manica … stavo anzi per domandarle …»
Sospese le battute, lo stantuffo respinse il pollice inerte. Il medico fissò, a fiato sospeso ed a bocca semiaperta, la mano tenebrosa stampata sul candido camice dal carbonaio.
«Fi…! fi … ! fi … ! fi … ! fi … !»
Il frettoloso fischietto dolcemente insinuante che salì dalla strada tra il tintinnio dei vetri lo scosse. Il compagno, il maestro di musica, si annunciava, aspettava, esortava.
«Fi…! fi … ! fi … ! fi … ! fi … !»
Il convenuto segnale del compagno nei momenti solenni – solenni naturalmente per i cacciatori di sangue – in cui l’allegro campanello finora squillante a distesa per il bosco, dopo qualche rintocco serio, lento, sempre più lento, tace ad un tratto. Il cane è rigido. Una statua nella vaghezza d’una cornice di sterpaglie d’oro. Il dolce frullo della beccaccia che scatta è da un istante all’altro per far vibrare il bosco color di rame, estatico e odoroso. Il compagno chiama …
Una smorfia amara gli guastò nel volto la nascente beatitudine e riuscì arrossendo a balbettare: «Non saprei proprio, conte, questa mano, questa mano nera … queste domestiche …»
E riprese in fretta a spingere lo stantuffo.
«Allegro! allegro conte! andiamo benone! è scesa di dieci! seguiti con la solita prescrizione … è un ottimo preparato …» Sciolse in fretta il bracciale.
Gli riabbassò, malgrado le sue proteste, la manica della camicia, gliela abbottonò, gli porse la giacca aiutandolo ad indossarla ed in punta di piedi gli fece strada verso la porta.
Ma l’altro, carezzandosi il pizzetto, voleva parlare, voleva dire, voleva ancora conforti e spiegazioni: «La sera, scusi, va bene il latte solo? …»
«Benissimo!»
«Ed a mezzogiorno una minestrina? …»
«Fi…! fi … ! fi … ! fi … ! fi … !»
Il dolce fischio incalzava inquieto, tenero, velato di ansia.
«Va benissimo! … ma non bisogna esagerare! … e soprattutto non lasciar passare le ore dei pasti… per carità! se no è peggio … scommetto che lei da stamattina se ne sta con una tazzina di caffè d’orzo …»
«Verità! ha indovinato! pardon!… anche lei… vada!… vada! …»
Il medico non disse né si, né no, ma in punta di piedi seguitò a fargli strada verso la porta, con ogni cautela, sul pavimento lucidissimo di cera. Ma ad un tratto, un sibilo stridulo e maledetto, portò gli occhi del paziente a considerare la calzatura del suo celebre sanitario.
«Ah! … oggi è in tenuta da caccia! bravo! benissimo! … anche lei …»
«Cosa vuole! – rispose a voce · tremula soffocando l’iniziato digrignio dei denti – sempre qua dentro! Si fa la muffa… un po’ di svago … altrimenti giunture ed arterie si arrugginiscono … quattro passi ogni tanto …»
«In bocca al lupo! giovedì sarò da lei! in bocca al lupo!»
E mentre il dottore, al riparo dei tendaggi, alzava gli occhi colmi di grazie al cielo, il conte, già fuori, tirandola a sé, chiuse garbatamente la porta.
* * *
Al nuovo squillo di campanello, la faccia divenne di fuoco. Strinse i denti. La mano restò sospesa in aria con la mela divorata a metà, senza sbucciare, malgrado le proteste della signora, con la scusa che nella buccia vi è la maggior parte delle vitamine; ma in verità per non confessare la fretta febbrile. Ascoltava ad orecchie diritte. Moglie, figli, carbonaio guardarono sgomenti.
«Son due contadini, moglie e marito, per una visita … mi sembran villani grassi… ho detto che lei non era in casa che ad ogni modo andavo a vedere … che tornassero
domani… ma quelli duri! Sa che i contadini sono tenaci … tenacissimi …»
La cameriera parlò in fretta ed a voce un po’ tremula. Poi tacque ad occhi chini.
Silenzio sepolcrale.
Si considerò con un buffo sguardo pietoso il vestito, ed alzò gli occhi al carbonaio che, dritto e contegnoso, taceva, nerissimo. Fu uno sguardo quasi implorante consiglio e soccorso.
«È tardi!!… non si ·potrebbe meglio domani?! …»
«Sa … – replicò quello con franchezza e senz’ombra di crudeltà – … lei meglio di me sa che razza di bestie matte sono! stasera tante … proprio tante… domattina non ce n’è più una … non vorrei poi che lei …»
Sicuro del fatto suo, fissò gli occhi del medico che all’improvviso diventarono corruschi, mentre si rivolgeva alla cameriera. Questa sempre sulla porta in attesa delle imminenti parole, sentendosi investita da quello sguardo, si azzardò appena allora ad alzare le palpebre.
«Di’ loro! … di’ loro – mugolò a scatti tra il digrignio di denti – tutto quello che vuoi … che sono occupato … che sono … uscito … che ho un febbrone … e magari … sì, di’ loro che sono morto!»
A quest’ultima nerissima parola detta con tanta rabbia e pallore. figli e moglie impallidirono.
S’alzò di scatto e quasi pattinando in un sibilio di chiodi raggiunse la camera degli impicci ove si affibbiò i villosi e rossastri cosciali di capra che salivano a coprirgli il petto; si buttò a tracolla il carniere e ghermì la doppietta.
Quindi, seguito dal cogitabondo carbonaio, scese tre per tre le scale con la chiave della rimessa già brandita in mano, mentre l’impetuosa avanguardia dei cani, arrivata in fondo, cancellava con l’allegra fanfara il fischietto dell’amico che incalzava sempre più frettoloso, tinto di tenera
ansia ed ormai cupo di disperazione.
*** .
Al rombo del motore, moglie e figli, dimentichi del pranzo da tempo freddo, eran corsi alla finestra. Videro l’auto sbucare, far quattro dieci, venti, trenta passi; poi con costernazione la videro fermarsi dinanzi ad un’altra macchina che malgrado i raschi insistenti ed affannosi del clacson con prepotenza le aveva sbarrata la strada.
E videro una donna scarmigliata saltarne giù, aprir lo sportello, scrutar dentro tutto e tutti e quasi in ginocchio prender la mano del medico, invocando: «Venga giù! venga! ci vuole un altro suo consulto! muore! me la salvi! in nome di Dio! in nome dei suoi figli! salga! lo sa … son pochi chilometri …»
Lo videro sbucar fuori e discendere quasi trascinato a due mani da quella pallida donna, disfatta dal dolore. Videro la sua occhiata per il malinconicissimo arrivederci all’amico che rincantucciato in fondo nel sedile, diventando verdognolo, aveva sospeso il mangiucchiare mentre il sangue gli mormorava una mortale sinfonia nel cuore. Videro quindi il gesto del capo al garzone che voleva
dire: «Rientra!» Sentirono la sua voce che cercava, smorzata smorzata, di persuadere la povera donna, la quale tentava di trascinarlo nell’altra auto: «Non cosi però! non cosi! un momento! calmati! faccio subito …» E si considerava il vestito di fustagno ed i villosi cosciali.
* * *
Mentre col rombo del motore s’allontanava il lugubre ululio dei cani disillusi, lo sentirono risalire a tonfi pesanti scalino a scalino. Brontolava: «Triste vita! sempre, sempre tra guai! sempre tra dolori! tristissima vita poi se ti capita sulle spalle la fama di taumaturgo!»
E nei suoi occhi ogni tanto passava, fuggitivo, qualche riflesso di quelli di Giobbe.
Appena fu su, chiamò nello studio il figlio maggiore e, dopo uno sguardo falciante a librerie e strumenti, gli prese la rosea faccia tra le mani E fissandolo con occhi supplici, penosamente interroganti, gli domandò: «Quando sarai grande, che vorrai fare!?»
E quello, sorridente e meravigliato, scoprendo un gran candore di denti:
«Oh! bella! Il dottore come te!»
Note di lettura di uno “spettatore privilegiato”
Dopo la stagione dei romanzi (dal 1922 al 1937), Filippo Petroselli, si dedicò prevalentemente alle novelle, che furono pubblicate in due volumi, per i tipi della casa editrice Gastaldi, tra il 1949 e il 1953.
Le sue prime prove letterarie avevano avuto inizio con le prose allegoriche raccolte in volume nel 1910 per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dei suoi genitori con il titolo La via. Quaranta anni dopo – con l’esperienza di lunghi anni di professione medica al fronte, con l’orrore per la guerra e qualsiasi forma di violenza, anche la scaramuccia più banale, maturato in quegli anni, e forte della conseguente scelta di una vita di lavoro e di scrittura, appartata e silenziosa, si dedica di nuovo alla prosa circoscritta in forma di novella.
Nel breve volgere di alcune pagine, racchiude situazioni, aneddoti, scenette, imprevisti ed equivoci di ogni tipo, ambientati nella semplice quotidianità di una città sonnolenta, di un contado fatto di poderi, uliveti, campi, boschi, laghi e della varia umanità che abita l’una e l’altro.
Leggendole mi viene il sospetto – ragionevole – di potervi riconoscere persone in carne ed ossa, se solo potessi – magicamente – tornare indietro nel tempo, entrare in punta di piedi nel suo studio, e chiedergli: “Nonno, chi era questo personaggio nella vita reale?”. Sono sicura che avrebbe interrotto la scrittura, si sarebbe fermato e mi avrebbe raccontato, con la sua tipica flemma e il suo malcelato sorriso di approvazione, la persona corrispondente al personaggio. In qualche caso, forse, l’avrei abbinata a una persona che anche io ho avuto modo di incontrare.
Se questo è possibile solo nelle mie fantasticherie, ho la possibilità di verificare la corrispondenza tra realtà e frutto dell’ingegno e della fantasia dell’autore in alcune descrizioni di ambienti.
Incredibilmente, infatti, almeno in alcuni casi, la vicenda è ambientata in un interno a me ben noto e, dunque, perfettamente riconoscibile.
Come dire, sono un ‘lettore interno’ o uno ‘spettatore privilegiato’ di quella particolare narrazione. Per un lettore che non abbia conosciuto e vissuto quello specifico ambiente, l’ambientazione in cui si imbatte in una novella è frutto del mondo narrativo dell’autore.
In quanto nipote dell’autore mi ritrovo ad avere la chiave per riconoscere l’ambiente e per averlo vissuto direttamente, anche se in un momento successivo a quello della scrittura.
In questo modo la novella non è più solo una novella ma un frammento di autobiografia. E, cosa ancora più significativa, non ricordo di essermene resa conto in occasione delle mie precedenti letture. Il nonno era ancora vicino, magari era nello studio, mentre leggevo nella stanza accanto (nella stagione della casa di città) oppure nella comoda sedia a lui riservata sul piazzale (nella stagione della casa di campagna), e io sulla panchina accanto con il libro tra le mani. La descrizione era parte integrante della vita quotidiana. Una cosa naturale.
Oggi, rileggendo alcune novelle, quegli ambienti sono emersi dalla memoria profonda dove sono rimasti indelebilmente ‘acquattati’. È il valore aggiunto del mio essere lettore degli scritti del nonno letterato.
Così, l’ambiente dove si svolge La partenza è – senza dubbio alcuno – la sala d’aspetto della casa di città. Per la verità maturo il sospetto, anzi, direi, la quasi certezza che nel medico – il “Professore” come i pazienti e i conoscenti in genere gli si rivolgevano – il nonno abbia impersonato se stesso, con una buona dose di autoironia, e che, per contorno, abbia inserito nel racconto altri ambienti (la ‘stanza degli impicci’ o ‘camera buia’, la rimessa) e, a mo’ di comparse, anche moglie e figli in una sorta di riunione familiare improvvista, dettata dalla strana situazione che si è creata. Non credo di esagerare, ipotizzando che l’intera scena possa essersi svolta più o meno come l’ha raccontata, magari con quel pizzico di amplificazione che le garantisce un afflato letterario!
Post-scriptum.
Il figlio più grande, in realtà, non ha fatto il dottore in medicina. Ha fatto il dottore in agraria, in un’epoca in cui – temo fortemente – tra le aule universitarie si ricorrevano i nuovi miti americani della meccanizzazione e della industrializzazione, senza troppo interrogarsi sul domani (che ormai è qui e ci costringe a ripensare quel meccanismo pervasivo per le terre, per il pianeta e, a conti fatti, per l’umanità).


