Giudizi critici su “Il fabbro meraviglioso”

Quanto è stato scritto sull’opera letteraria di. Filippo Petroselli  a cura di Alessandro Vismara

“Dopo aver curato personalmente con amore e passione l’OPERA OMNIA dello scrittore Filippo Petroselli, in tre volumi in ottavo di complessive pagine 1340, è con vivo piacere che presento questo volume. È nato nel lontano 1910 quando il grande letterato Guido Mazzoni con brevi parole che sanno di profezia: «Vi è genio e fantasia» giudicò il primo lavoro letterario di Filippo Petroselli, allora studente. Mi auguro che questa raccolta di giudizi sia gradita ad ogni lettore e soprattutto a chi ama approfondire lo studio sulle opere di questo illustre Autore”.

Alessandro Vismara

1938


  • L’eco di Bergamo  (5 gennaio 1938)

“Umorismo di Petroselli”

Il nostro secolo è un po’ il secolo dell’umorismo. Si pensi che uno dei maggiori scrittori italiani degli ultimi tempi fu umorista d’alta tempra, Luigi Pirandello.

Non ci fa meraviglia che narratori di buona lena, come il Petroselli, volgano verso l’umorismo. Vi erano di ciò cenni in precedenti lavori, come nell’Ampolla della gioventù, nel Sole malato e specialmente in quel Ruzzante, somaro geniale e festevole, di cui ancora è viva l’eco.

Siamo ora ad un nuovo Romanzo, che porta appunto il sottotitolo di – Romanzo umoristico – Il fabbro meraviglioso (1). Tale è un arabo barbuto ed enigmatico Sidi Beddel, il quale con la sua arte riesce a smussar gobbe, menti sproporzionati ed obesità deformanti, una specie di mago, come si direbbe, della chirurgia estetica.

Ma il senso e il valore del Racconto, più che in tali elementi fantastici e un po’ ingenui, si trova nelle descrizioni di ambiente di cui è ricco. Al riguardo Petroselli è veramente maestro. Due sono i motivi che avvivano la sua arte, quello della Guerra e quello del Paese. Il nostro Autore ha fatto realmente la guerra e quindi sotto la sua penna fioriscono a iosa aneddoti e ricordi, né è assente una punta d’aspra ironia contro gli imboscati ed i profittatori.

Conosce anche molto bene la vita di paese con i suoi pettegolezzi, le sue stramberie, ma in definitiva sana e sobria, alla aria aperta, scandita sul ritmo sempre vario delle stagioni.

Sfondo è questa volta Ghia, un paesucolo sormontato da un vecchio castello un uccellaccio feudale, che ha ora perduto tutta la sua terribilità. Vi abita il Principe Attilio, detto – Don Gebboso –, dalla sua gebba, eccessiva, prominente, che gli deriva dai magnanimi lombi.

Tutta la prima parte del racconto è dominata dal motivo intensamente comico della “gebba”, fino a che il mirabile arabo, di cui dissi, non riuscirà a farla sparire, ridando al Principe Attilio eleganza e decoro. Si inseriscono qua e là motivi sottili e profondi, come quello della decadenza per esaurimento di talune famiglie nobili, quale appunto quella di Don Gebboso. C’è la scena in confronto degli antenati, che si svolge nella sala dei Ritratti, tra i quali Attilio va cercando quello cui deve la famosa gebba. È una scena ricca di motivi chisciotteschi, condotta magistralmente.

In un momento d’ira spezza lo specchio e vede il suo buffo volto rifratto negli infiniti frammenti dello specchio stesso. Vi è qualcosa di allucinante, che mi ricorda il “Ridi, pagliaccio” di Fausto Maria Martini, di cui era interprete sommo il povero Musco.

Di fronte alla nobile famiglia di Don Gebboso, sta quella delle Lupino, madre e figlie, tra cui la Sinforosa, magnifica macchietta di zitella di provincia in cerca di marito, con le sue prepotenze le sue cattiverie.

Il mago prodigioso rende tutti belli, Gebboso senza la gebba, Sinforosa senza la faccia esuberante da mezzo cocomero, come la chiamavano. Tutto finisce lietamente con un buon matrimonio e (in periodo di intensa propaganda demografica ciò non guasta) la nascita di un bel bambino, con un gebbino, che ricorda moderatamente quello del Padre.

Ma poi le figure secondarie, di colore, ciascuna così bene delineata, Fiorino nella sua rustica sanità e bellezza, il Maresciallo dei Carabinieri Cotegù così preso dalla propria funzione di “rappresentante della legge” e ancora Germana un po’ pinzocchera e un po’ mezzana, il medico Dottor Elpidio nemico di ogni novità e il riservatissimo Don Anselmo, che dagli avvenimenti trae una sua lucida moralità. Un giudizio in merito? Negli umani giudizi nulla vi è di assoluto. Dico soltanto che è un libro che si legge di un fiato con vivo interesse, che attanaglia attraverso i suoi molti particolari, un Libro che suscita molta curiosità, diletta e fa bene all’anima.

Lo stile è schietto e semplice. Niente fiorettature retoriche, alla buona, quasi paesano. Talvolta però vi sorge dentro una sottile vena di poesia e allora il Petroselli raggiunge effetti di alta arte descrittiva, come a proposito di “Plenilunio”. 

“L’alba lunare aveva dolcemente indugiato sulla schiena bruna delle colline con un morbido lividore di opachi riflessi di argento. Quindi, pudica e timorosa di vincere i notturni segreti dei boschi ancor verdi e sorprendere il sonno delle foglie immote e degli uccelli col capo stanco sotto l’ala, con vaga delicatezza aveva trasecolato in una pallida tinta di rame, quasi da gelido fuoco d’oltre monte …”.

Bella pagina ricca di vita e di movimento, come le altre concernenti la radio, la trebbiatura ecc. ecc. V’è anche nel racconto un’implicita moralità. La trae, al termine, Don Anselmo dal pulpito, per i suoi bravi parrocchiani.

Non bisogna cercare felicità irraggiungibili, bisogna preoccuparsi più della bellezza dell’anima che di quella del corpo, prendere la vita qual è, costituire famiglie sane fisicamente e moralmente. Questo è il segreto della vera felicità e grandezza di un popolo. La politica, diciamo così, di Don Anselmo è anche la politica del Regime ed è politica buona e ritemprante.

Vedere il mondo, uomini, cose umoristicamente, significa vederle come attraverso uno specchio, che accentua gli spigoli, esagera caricaturalmente le figure, deformazione che è ingrandimento e ammonimento.

Questo è l’umorismo morale, quasi sempre felice, di Petroselli. Dà attraverso la lente savi consigli, fa distendere l’arco della fronte, troppo spesso aggrottato, nella luce di un sorriso buono, che ignora la malizia e il doppio senso. E con ciò fa bene. Plaudiamo.

Filippo Petroselli, Il fabbro meraviglioso (romanzo umoristico). Editrice Àncora, Milano

  • IL POPOLO – TORINO            ( 1938)   RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso             

“Romanzo umoristico ove sotto il velo di trasparenti allegorie e variazioni ironiche esercitate su caratteristici aspetti della società contemporanea si vuol rappresentare l’eterna ansia della umanità verso un mondo sostanzialmente migliore”. 

  • IL GIORNALE DI SICILIA – PALERMO (gennaio 1938)       RICERCA IN CORSO  

“… gran bel gioco d’equilibrio sulla pericolosa corda dell’umorismo …”.

  •  IL GIORNALE DI GENOVA                        (febbraio 1938)    RICERCA IN CORSO              

“Il fabbro meraviglioso è un romanzo giocondo. Pensi al Fucini per un rispetto, al Panzini per un altro. Ma soprattutto pensi al Petroselli che ha fantasia, inventiva ed abilità tecnica di racconto, ha forza di osservazione umana e sottigliezza ironica e amabilità cordiale di umorismo. Bisogna segnalare questo libro.  Mi rammarico di non essere un critico di quelli che tuonano con autorità …”. 

Arenius

  •  IL POPOLO BIELLESE                           (marzo 1938)

Fedele alla via che da tempo percorre, Filippo Petroselli ha dato alle stampe un altro di quei romanzi pieni di fantastico umorismo, ove degli errori umani è posta in risalto solo la comica presunzione, per far ridere, o anche soltanto sorridere, senza l’amaro o il riflessivo di una satira, senza il greve sigillo di una tesi o di un moralismo.

Pagine quindi, anche queste, ariose, soffuse di ingenuità e rozzezza paesane, pur dove serpe nelle vene sangue nobile, piene di una ridanciana leggerezza che – pur non volendo – attinge talora i men superficiali aspetti delle cose o le meno evidenti bizzarrie sociali dell’uomo. Pagine dove lo stile piano, senza volute eleganze o ricercati effetti, si adagia a meraviglia su di un contenuto comune, universale, quotidiano seppur nascosto (l’aspirazione alla bellezza fisica) ravvivato ed illuminato – con tonalità più bonariamente buffe, che non brillanti o stupite – dall’elemento di fantasia (la cura di bellezza di Sir Beddel).

Così, l’elemento romanzesco e narrativo è ridotto a poco più di uno schema: la vicenda di don Gebboso che, abbellito grazie alla cura meravigliosa dell’amico indiano Sir Bedell, acquista credito e amore, e che si ripercuote in una generale ansia di ringiovanimento e di abbellimento da parte di tutti i compaesani è, più che altro, uno spunto ed un pretesto. Di là, l’Autore con penna abile talora anche se leggera trae motivo per abbozzare figure, narrare piccoli episodi, delineare situazioni in modo sempre piuttosto sommario ma comunque pittoresco, tal che alla fine riesce per via di approssimazioni di cenni e di scorci a darci una descrizione di un ambiente e di uno stato d’animo generale.

Resterebbe ora dir qualcosa sull’umorismo dell’Autore. Sinceramente, esso ci è parso più schietto e meglio riuscito in un’altra opera (“Ruzzante”) dove l’elemento umano era considerato più di riflesso sotto angoli visuali meno diretti. A nostro avviso, prendendo di fronte i personaggi come qui fa l’Autore, era lecito attendersi qualcosa di più saporoso così nelle situazioni che negli atteggiamenti: anche senza arrivare alla profondità di una satira, il comico poteva esser meno tenuto alla superficie delle cose e degli uomini appunto per più scostarsi da un’agevole osservazione comune. Anche senza cadere in menomazioni sociali (preoccupazione evidente nel parlare delle autorità paesane: maresciallo e parroco), certe pagine avrebbero potuto essere riempite di qualche po’ di filosofia o di ironia a dar più rilievo e più gusto.

Fatta questa doverosa riserva, dobbiamo peraltro mantenere che tutto il libro è comunque interessante e divertente, e che riesce veramente a riposare lo spirito, con pagine briose ove non sono complicazioni, preziosismi o ermetismi. E “Il fabbro meraviglioso”, anche senza pretenderla a capolavoro od a speciale segnalazione risulta meraviglioso anche per il lettore, non fosse altro, perché almeno per un’ora ricostruisce nell’animo nostro un po’ di quella serenità che tante cose durante la giornata ci distruggono. Meraviglia non delle ultime nei tempi e nella letteratura che viviamo …

Ajax

  • DIFESA SOCIALE Rivista mensile di igiene previdenza e assistenza sociale (luglio 1938)

Prof. Filippo Petroselli – Ruzzante (Bemporad Firenze). – Il fabbro meraviglioso (Ed. Ancora Milano).

Filippo Petroselli è un medico viterbese: di più è un medico valente che possiede larga fama fra i propri colleghi e fra coloro i quali debbono avere il non gradito piacere di ricorrere ai medici. Al di fuori e al di sopra della propria professione – resta a determinare se, da un lato pratico, possa dirsi al di sopra – Petroselli è ottimo scrittore. Uno scrittore il quale, fino ad oggi ci ha dato sette o otto lavori tutti scritti con molto garbo e tutti di perfetto gradimento del pubblico oltre che della critica: per un medico il riuscire gradito al pubblico non è poco né cosa secondaria.

Oggi è indiscutibilmente il tempo dei medici per la letteratura. Non si sa quale fatto o quale stato d’animo abbia portato quella savia persona, un po’ chiusa in sé e un poco legata a un lavoro faticoso, che è il medico, a darsi alla penna che un tempo usava soltanto per stilare illeggibili ricette quasi per un senso di segreta alleanza con l’altro suo amico affine il farmacista. Tempo di medici, per la letteratura: il nord ci ha dato un Cronin che è medico valentissimo e scrittore di fama mondiale; l’Ungheria ci presenta altri medici fra la larga schiera dei suoi letterati. E i lettori si stanno volgendo con una larga simpatia ai lavori narrativi di questi medici che hanno dimostrato una profondità di sentimento e una acutezza di analisi non apparse in molti scrittori professionisti. Tanto che nessuno può nascondersi il successo del romanzo ultimo di Cronin “Cittadella” il quale è infine il romanzo del medico e delle sue involuzioni morali.

Da molti si è discusso perché improvvisamente i medici siano usciti alla ribalta della letteratura con tale vigore e con tale compostezza, ma soprattutto con tanta efficacia. Certamente dipende dal fatto che il medico, il professionista destinato a stare più vicino all’umanità e nel momento in cui l’umanità soffrendo scopre il cuore e le sue pecche e le sue bellezze, ha il dono di potere vedere a nudo l’animo umano e quindi, se dotato di una certa sensibilità artistica, di rappresentarlo con maggiore efficacia e con più profonda verità. Deriva certamente dall’altro potere che è proprio dei medici questa abilità di cogliere le verità morali: la diagnosi della malattia, nella quale il dottore di vaglia deve sempre scendere nell’animo del malato come con gli occhi entra nel suo corpo. Niente da discutere perciò se oggi questa categoria professionale ci dà i migliori romanzieri.

Ma in generale i medici scrittori sono dei pessimisti, dei pittori delle tare umane che nel dolore fisico escono immediate e nette: in generale sono dei rappresentatori scettici delle asprezze sociali e delle bassezze umane che a loro balzano agli occhi negli ospedali e nelle tensioni estreme del malato. Poi spesso sono dei materialisti che hanno fatto della vita un fatto meccanico e fisico nel quale si inserisce l’altro morale espresso rudemente attraverso il dolore.

Perciò stupisce e fa categoria a sé Filippo Petroselli il quale – forse unico dei medici – è un sottile umorista impastato di buon sangue e di una parlata abile e fresca. Questo medico che sa sorridere con una bocca fresca e scrivere con penna lieta pure attraverso il viatico quotidiano della propria professione rappresenta una eccezione mirabile e degna di specialissima considerazione.  Il suo stile non risente di nessuna pesantezza professionale né di alcuna malinconia, ma di quello spirito leggero e composto che è proprio dei toscani e di quella scrupolosità di osservazione che solo chi vive molto in mezzo alla gente può possedere. Ecco perché Petroselli merita un capitolo a parte fra i letterati medici dei quali gli albi nostrani non sono molto fitti.

Abbiamo letto in questi tempi i due ultimi romanzi umoristici di Petroselli e ci siamo raffermati in questa convinzione, provandone un sottile gusto, sia per la buona architettura narrativa che per la piacevolezza del racconto, condotto sempre, con quel garbo che rivela mestiere e, oltre mestiere, il dettame dell’arte quale va intesa da chi scrive con mete giuste e nette. L’umorismo di Petroselli non esorbita mai da quella misura garbata dalla quale noi italiani siamo portati spesso e purtroppo ad uscire. 

“Ruzzante” e “Il fabbro meraviglioso” sono queste ultime due opere che abbiamo lette in questi tempi. Nell’una si parla di un sapiente somaro che è protagonista del racconto; nell’altro si intreccia una vicenda un poco umana e un poco fantastica che termina felicemente come deve avvenire di solito nei racconti di fantasia e di umorismo.

Petroselli ama descrivere l’ambiente borghigiano e rustico e quella mezza borghesia semplice e astuta che sta a cavallo del secolo scorso; ma non fa mai delle caricature, bensì individui vivi e parlanti che possono avere posto ovunque e che sono piacevoli proprio per questo fatto. La sua terra è la terra sana che ha forza di fare faticare gli uomini come di farli sorridere con l’effluvio suo naturale. Il suo stile è scorrevole e incisivo, senza soste a scopo di inutile letteratura ma senza sciatteria per correre incontro al fatto.

Vi è da concludere che piace assai questo medico scrittore e psichiatra, ottimista e sorridente, il quale sa cogliere dalla propria professione gli elementi profondi per rappresentare la vita senza cadere nel pessimismo crudo degli altri scrittori formatisi negli ospedali; questo medico che sa fare sorridere senza perdere la propria umanità. E questo è anche il parere di numerosi notissimi critici italiani e stranieri che con maggiore autorità della nostra hanno parlato degli scritti dell’egregio.

 G.P.C.

  • Rassegna di attività cittadina. VITERBO   (1 febbraio 1938)

L’artista in Petroselli è davvero meraviglioso. Ingenuità e intelligenza, realismo e potere magico di trasformazione, vena di canto e rigorosa sorveglianza di arte si armonizzano e fondono in lui una suprema naturalezza, senza traccia, non dirò di sforzo, ma di lavoro. Il lavoro però c’è stato, s’intende, e attentissimo. Difatti stile e lingua accompagnano mirabilmente l’idea che il Petroselli vede e sente come cosa animata. A questa potenza di individuazione il Petroselli aggiunge la facoltà di trarre le idee dalle cose: l’immagine materiale suscita in lui un mondo di pensieri. E siccome il suo pensiero si sminuzza, in ragione del suo carattere analitico, in mille particolari così la sua lingua, il suo stile ti danno l’impressione di un giardino variopinto, ma folto dove a prima vista, non v’ha traccia di sentiero e ti ci senti perduto. A mano a mano però che tu penetri dentro, abituandoti alla sua arte, diventa per te un incanto vagabondare in un mondo in cui respiri una freschezza d’aria e un olezzo di dolce primavera che delizia e spesso commuove. Dico commuove, perché deriva dal candido amore che rende sensibile il Petroselli dinanzi alle innumerevoli bellezze della natura e dall’interesse con cui egli segue, da spettatore appassionato più che da attore, le alterne vicissitudini della commedia umana. In tanta varietà di temi e di umori, l’unità è data opera dalla · intima  e diretta presenza della sua anima in ogni pagina e, direi quasi,  in ogni parola, perché il Romanziere ha un’arte tutta propria, tutta petroselliana. Mi pare infatti ch’egli segua il metodo di ammassare sul soggetto, che ha sceIto, note e osservazioni. Egli con compiacenza di psicologo valente qual è guarda, mira, scruta, coglie i battiti del cuore, ogni increspar di pelle, ogni corruscamento di fronte, ogni inarcar di ciglio, e poi, riunite le varie esperienze, le annoda in un intreccio ingegnoso e mai faticoso. È proprio in questo studio di psicologia, oltreché nella sua arte, che si deve ricercare la ragione del rilievo scultoreo con cui son ritratte le creature della sua fantasia. 

Quando vi è coincidenza tra la sua ricerca e la sua squisita sensibilità, allora il Petroselli crea dei piccoli capolavori che toccano la perfezione.

Siccome avviene però che la vita non presenta degli esseri semplici, tutti d’un pezzo, bensì complessi e ricchi di contrasti così i personaggi da lui disegnati hanno sempre qualcosa di enigmatico e di inquietante. Si capisce bene per questo come il Romanziere dopo una esperienza trionfale fatta con «Ruzzante», indimenticabile per quel sano brioso umorismo, si sia deciso nuovamente a scendere nell’atmosfera comica con «Il Fabbro Meraviglioso». Libro di gaia limpidezza, di schietta moralità che educa e diletta senza mai suscitare tuttavia un riso spensierato e automatico.

Ma lo stile del Petroselli è altrettanto grande quanto la sua facoltà di pensare e creare. Scrittore d’animo delicato, egli non ha né  pompa, nè magniloquenza rettorica del grande stile, possiede invece potenza pittorica di espressione e squisitezza di sfumature nell’analisi dei sentimenti. Egli è nato col dono della parola, quello cioè di trovare la frase esatta, plastica e luminosa dell’idea. Egli ha il dono della vita, quello cioè di dare un’anima alle cose. Leggendolo si ha l’impressione di assistere alla creazione di un mondo in una lucente sfera di visione immateriale e di imperturbabile incanto. Egli ha il dono della lingua per cui rinnova i temi comuni. Ha infine il dono del ritmo per cui presta ai vocaboli una sonorità novella, combina le parole in originali modulazioni e con la voluta di un periodo esprime un sentimento nel modo più esatto e nel tono più caldo e commovente. E poi ci sono le fughe, ossia quelle parentesi liriche con le quali il Romanziere raggiunge effetti artistici addirittura sublimi.

I principali personaggi dei libri del Petroselli son dunque per me questi due: la sua indole psicologica e il suo stile scintillante. Qui sta la sua originalità. Ciò non vuol dire che originali non siano i personaggi ch’egli scolpisce in quest’ultimo libro di fine umorismo, direi, manzoniano più che chisciottesco.

La trama? La lascio alla passione dei lettori che leggeranno il libro tutto d’un fiato come me che son riuscito ad alzar gli occhi da quelle pagine meravigliose solo dopo quattro ore di lettura fitta fitta.

  •  IL SOLCO FASCISTA (11 febbraio 1938)

Il fabbro meraviglioso

A breve distanza dai singolarissimi romanzi “Ruzzante” e “Il sole malato”, che hanno fatto balzare di colpo il loro Autore tra i più seguiti narratori d’oggi, specie nell’ambiente cattolico, ecco Filippo Petroselli uscire con quest’altro romanzo – umoristico così egli stesso lo definisce – dal titolo un po’ troppo poetico, se si vuole, non propriamente originale (chi non ricorda il “Fabbro armonioso” celebrato e commovente poema di A. S. Novaro, di cui è uscita in questi giorni la seconda edizione?), ma che, insomma, si adatta … parodisticamente a quanto nel libro è contenuto: “il fabbro meraviglioso (armonioso, sic)” (editrice Àncora, Pavia 1938, lire 7). Non nascondo al Petroselli che più mi piaceva il titolo che era prima nella sua intenzione: “Nel paese di Don Gebboso”. Appunto per quello che ho detto, e per un certo sapore di favola antica, quasi per i ragazzi, che se ne ricavava.

Ma sono quisquilie: e dobbiamo, invece, tener d’occhio la sostanza. Diciamo subito che questo terzo romanzo del Petroselli è venuto a soddisfare il desiderio che ce n’eravamo formati. E, in conclusione, è degnissimo di figurare con gli altri, benché, in tutta sincerità, noi saremmo sempre disposti a dare il voto di preferenza al “Ruzzante”, d’indelebile ricordanza. Ma anche in questo “Fabbro meraviglioso (armonioso, sic)” abbiamo un complesso che si impone e leggiamo certe pagine dai dialoghi così spigliati, e talora salaci, dal tipo così tipici, dagli episodi così scattanti e ruscellanti di buon umore, che vien voglia ricominciare il libro da capo per esserne presi ancor più strettamente. Davvero non è cosa di tutti i giorni capitar contro a romanzi, come questo, d’un humour sano, frizzante, che va diritto al suo scopo senza nessun indugio, che non si giova di alcun gioco sull’ambiguità, e soltanto sa sfruttare per bene e con ragione gli avvenimenti, le situazioni, gli stati d’animo che un po’ tutti conosciamo per esperienza lungo il nostro cotidiano cammino. Ché, se una specie di favola è stata assunta dall’autore a ricamare, illeggiadrendolo a volte e altre volta rendendolo grottesco, il suo mondo, dovete star certi che la realtà della vita non viene mai perduta di vista, e l’umanità ha sempre campo di affiorare dovunque, mentre la finalità morale è raggiunta in pieno con sincerità e limpidezza, senza peraltro appesantirsi nella didattica che struggerebbe ogni interesse artistico.

Qui sta il segreto di Petroselli romanziere, come mi pare d’aver detto altra volta: svolgere una tesi morale, fare del bene, e comportarsi in modo che i lettori non se ne accorgano. I frutti nelle loro coscienze li riscontreranno da soli, farsi inavvertitamente, sorti per spontaneità. Non vi pare, questa, una dote sommamente apprezzabile per uno scrittore specie ai nostri giorni? Papà Manzoni darebbe anch’esso il suo voto a tale rara avis. Ma giacché abbiamo tirato in ballo il Manzoni, è da dire che il nostro Petroselli se ne mostra un seguace non indegno, almeno per nostro conto, in taluni brani che rivelano un’osservazione umoristica proprio sullo stampo del grande Lombardo. Sentite, ad esempio: “L’uomo – per le donne non sappiamo se ciò avvenga prima, dopo o meglio mai – arrivato verso la cinquantina è come preso da un esagerato sentimento di sé. Ciò è forse frutto della maturità dell’intelletto e forse anche della solidità del corpo. Eccotelo, a quell’età, dominato dalla fregola di contar qualcosa nella vita e tra i suoi simili.

È preso da una puerile e curiosa sete di eccellere e, forse, da un’indistinta brama di lasciar qualcosa di duraturo in questa terra, prima di avviarsi per quella strada che conduce al buio dove non si sta mai più in piedi e non si sente più battere il cuore”.

E diamo un cenno della trama del romanzo. Don Gebboso è il principe, ora spiantato, di Ghia. 

In causa della deformità del suo mento non trova da far bene, come dice, nel ceto delle pulcelle da marito, che possano portare seco una buona dote. Si capisce: il suo pensiero dominante è di rifornire il suo portafogli ridotto al verde. Quando dalla radio, viene a sapere che a Firenze l’arabo Sidi Beddel ha trovato un composto che, opportunamente iniettato, può ricostruire, abbellendole, le forme umane degenerate.

Detto fatto ricorre allo specifico per cui riesce ad avere un ‘naso’ (sic) regolare, passabile. Ed ecco che la parvenue Sinfarosa che di lui non volle mai sapere, se ne sente attratta e lo sposa, portandogli una consistente ricchezza.

Allora tutti gli abitanti di Ghia sono in fermento reclamando pur essi la cura alle loro bruttezze fisiche. Ed il mago arabo li accoglie mirando soprattutto all’amore di Leandrina, sorella di Sinfarosa: ma nessuno rimane contento, anzi ne conseguono lagnanze e disperazioni comiche. Tutto poi finisce per il meglio, com’è giusto, e com’era da attendersi.

Il romanzo dunque è sostanzialmente umoristico. Abbiam parlato di finalità morale: essa c’è, di sicuro; e consiste, crediamo, in quella conoscenza pratica degli uomini che fa dire al Petroselli, durante lo svolgimento del suo romanzo, tante verità che sono altrettanti grani di sapienza. E la verità che informa tutta la scena e l’azione è questa: ogni uomo, appena scorge un filo, vi si abbranca come a una corda; ogni uomo e ogni donna vorrebbero primeggiare anche nella vita esteriore, e, potendo, combattere la natura che con loro non è stata prodiga di bellezza. Tutto va bene: ma le ambizioni non sono superiori alle forze disponibili?

Sotto il riso, possiamo riscontrare anche un intento d’altro ordine, che chiameremo eugenetico. Il quale oggi è di moda. Nel romanzo sono figure descritte con abilità, e fermate nelle loro caratteristiche più clamorosamente ridicole. Prima fra tutte quella di Don Gebboso. E poi il maresciallo Cotegù, Leandrina, Sinfarosa, Donna Isabella, la Costanza, Sidi Beddel, Donna Ada, Maldia.

Un mondo variopinto scherzevole, irrequieto che si trasforma e si completa come in un caleidoscopio. Il romanzo si fa leggere volentieri appunto per questa vivacità fresca, larga, tripudiante, e sempre onesta e bonaria. Taluni suoi periodi ci riportano al migliore di “Ruzzante”. Leggiamo questa coloritura d’un giardino che ora “appena poteva chiamarsi cortile. Era un augusto deserto cosparso di cartacce, sassi, frantumi di piatti, penne e sudicio di pollame. La fontana muta: le sue Naiadi buie, nude dello scintillante velo d’acqua. Aggrondate e pazienti al vellichio delle lucertole che, d’estate, non cessavano su di loro il va e vieni. Di verde e fiori, solo a primavera qualche selvaggio ciuffo di violaciocche gialle e di boccadileone rossicce che se la vivacchiavano nelle crespe della muraglia di cinta o per gli scortecciati muretti in abbandono. Un vecchio sambuco, dal tronco sugoso, tentava dall’angolo in fondo di stendere un po’ d’ombra sullo squallore ed aprendo tutte le ombrelle dei fiori color merletto antico, s’ingegnava d’ammantare coll’odore troppo acuto, il lezzo che ai primi caldi cominciava a segnar nel cortile”.

Armando Zamboni 

  • IL giornale degli impiegati – Como

Filippo Petroselli, Il Fabbro meraviglioso, Editrice Ancora, Milano Febbraio 1938

“Originalità ed umorismo si fondono qui per creare un tipo speciale di romanzo di masse, che senza oltrepassare i limiti della logica, ci trasporta, per la via degli eventi, in un’atmosfera di sapore strano. L’originalità consiste soprattutto nell’avere ideato ambiente e tipi, l’esistenza dei quali nessuno ignora, ma che nessuno sarebbe capace d’individualizzare; l’umorismo nell’aver elevato a etica, quel sorriso che sorvola il paesetto di Ghia e che altri avrebbe abbassato ad un riso sguaiato. E come una povera secchia, ideò il poema eroicomico del Tassoni, una innocentissima “gebba” che i toscani chiamano “bazza” e i veneti “sbessola”, ideò questo romanzo che per criticarlo serenamente bisogna leggerlo e capirlo bene col semplicissimo scopo di evitare delle cantonate che talvolta certi critici di rispetto pigliano senza accorgersene. Fortunatamente il romanzo, tipograficamente chiaro e corretto, non costringe ad un lavoro improbo, e la piacevolezza interessante dell’avventure e dei protagonisti Don Gebboso e Sidi Beddel rendono quasi dolce la fatica, sicché il critico non può fare a meno di correre, di episodio in episodio, alla conclusione. Il principe Attilio di Ghia sarebbe l’uomo più felice del mondo se potesse sposare la bella Sinforosa, ma la bella non lo vuole per quella maledetta “gebba” che lo imbruttisce … mica male. Ma gli innamorati hanno un loro Dio, che sotto la forma di “radio”, avverte Don Gebboso dell’arrivo a Firenze dell’arabo Sidi Beddel, una specie di istituto di bellezza viaggiante. Don Gebboso corre naturalmente a Firenze e torna al suo paese un bell’uomo. L’esempio è contagioso e da Ghia partono per la città di Dante molte donne, tra le quali la piccola ed esile Leandrina, che “beddellate” a dovere, come diranno poi i ghiesi, desteranno l’invidia delle comari. I buoni ghiesi vorrebbero tutti andare a Firenze, ma Beddel, innamorato di Leandrina, va per amarla con comodo, a Ghia, dove in poco tempo ricuce con amore gli strappi alla bellezza di tutto il paese. Ma l’uomo è l’uomo e quando vuol soppiantare la grandezza del Creatore, commette delle gaffe maledette. Beddel ha fatto tutti belli, ma tutti eguali. L’identità della fisionomia genera quella confusione, quello sgomento, quello scandalo contro i quali vana tuona la voce del maresciallo Cotegù, del dottor Elpidio, del Parroco. Ma gli uomini sono ingrati e rendono ingiuria a chi ha donato beneficio. Beddel capisce e per non andarsene a mani vuote, tenta di rapire Leandrina, refrattaria e crudele. Fortunatamente per lui un aeroplano e il buon cuore di Don Gebboso riescono a salvargli la pelle. Poi tutto passa. Don Gebboso sposa Sinforosa, Leandrina Fiorino e via discorrendo. Dopo un anno nasce un dubbio. Ma i ragazzi saranno tutti eguali come i loro genitori beddellati? Il fremito del dubbio cessa. Don Gebboso mostra al popolo il suo primo rampollo con un “gebbettino”. Ghia è salva.

G. Porciani

  • VITA NOSTRA – TRIESTE         (febbraio 1938)              RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso            

“Questo è l’umorismo morale, sempre felice del Petroselli. Dà attraverso la lente savi consigli, fa distendere l’arco della fronte, troppo spesso aggrottato, nella luce di un sorriso buono, che ignora la malizia e il doppio senso …”.

  • LA LIGURIA MEDICA. Rivista quindicinale di medicina e chirurgia pratica ed interessi professionali  (febbraio 1938)   RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso

“Segnalo volentieri il nuovo romanzo, agile come i precedenti, scritto in bella prosa, originale e saporoso …”.

Giuseppe Vidoni (?)

  • QUADERNI DI POESIA Rivista letteraria, mensile a cura di Mario Gastaldi

(13 – 19 marzo 1938)                   RICERCA IN CORSO

http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/giornale/UM10014391/1937/unico?paginateDetail_pageNum=5

recensione                  Il fabbro meraviglioso 

Filippo Petroselli: Il fabbro meraviglioso – Romanzo umoristico – Editrice <<Ancora>>, Milano

Il fabbro meraviglioso è Sidi Beddel, un arabo misterioso, creatura di fantasia, mezzo medico e mezzo ciarlatano, che tra un’iniezione e l’altra trova modo di cambiare connotati, raddrizzare le spalle, spianare sporgenze, allungar corpi e far scomparire in men che non si dica il grasso superfluo.Un benefattore, come si vede, dell’umanità derelitta e che, come tutti i benefattori, trova il modo di farsi inviare a ca’ del diavolo da tutto un paese di cui ha fatto il paradiso della bellezza. Attorno a Sidi Beddel ruota, colle sue piccinerie, colle sue chiacchiere e coi suoi tipi, tutto un villaggio. Romanzo di ambiente, di umorismo che è narrato con simpatica piacevolezza paesana

  • NICIA, RIVISTA MEDICA D’ARTE E VARIETA’ (1938)

Il fabbro meraviglioso 

Molti e vari potranno essere i giudizi che nella massa dei lettori sono dettati dalle varie menti e dai vari metodi di leggere e di sentire; certo è che, se in realtà si tratta di umorismo, è un umorismo con un carattere tutto suo particolare che credo abbia avuto il gran pregio di far ridere prima di tutti lo stesso Autore e dopo i numerosi bimbi (perché in fondo noi tutti siamo ancora … dei bambini). Certo è che i tipici personaggi sono descritti con tale naturalezza di caratteri e di movenze, che sembrano vivere le loro vicende narrate su quello sfondo georgico che è il pregio ed il colore di tutti i romanzi di questo squisito cesellatore del bello letterario (vedi L’Ampolla della gioventù, Ruzzante ed Il Sole Malato). E perché il lettore si faccia un’idea approssimativa di quanto contiene questo fantastico romanzo, può solo pensare che l’Autore scrisse per “sfottere” quella magnifica arte d’abbellimento che entra nella branca scientifica della chirurgia con nome di terapia estetica. Si tratta d’innesti di paraffina per togliere le zampe d’oca, di trapianti di cute per rassodare i seni cascanti di qualche zitellona che improvvisamente si risveglia all’amore ed al tentativo di seduzione, di tagli chirurgici per rassettare nasi pomposi, menti voluminosi. Se l’avrebbe (AVESSE ndr.) saputo Gimplaine, invece di starsene a fare il buffone nel suo teatrino ambulante, si sarebbe certo recato a Parigi da una Madame Noe o da qualche suo predecessore, e così quel grande psicologo e storico che fu Victor Hugo non avrebbe potuto scrivere il suo Uomo che ride. E credo che anche Cirano di Bergerac non avrebbe avuto tante sue disavventure e Verdi non avrebbe potuto creare il Rigoletto! Questo Fabbro Meraviglioso, che ha piantato a Ghia la sua miracolosa fucina, è un arabo barbuto che si chiama Sidi Bedel; tutti i Ghiesi, per quello spirito di imitazione che domina in tutti i mortali, vogliono farsi bedelizzare, ma questo empirico che ha in sé qualcosa del mefistofelico, sembra quasi vendicarsi dell’ignoranza altrui nel ridurre col suo metodo terapeutico tutti i suoi soggetti da esperimento perfettamente identici tra di loro. La bellezza è un tema di invidia quando non è un fatto comune a tutti; se non esistessero i brutti, essa non avrebbe valore per mancanza di una pietra di paragone. Lucifero era bellissimo per quanto potesse essere confrontato con altri angeli meno belli di lui. In fondo, io penso che sia questa la filosofia su la quale si impernia questo romanzo il cui umorismo è per se stesso tanto verista. Però, in ultima analisi, sono convinto che non sia questo il migliore dei parti letterari di Petroselli; direi quasi che risenta dell’eclissi parziale di Ruzzante.

Antonio Fracassi

  • IL NUOVO CITTADINO, GENOVA              (marzo 1938)     RICERCA IN CORSO

Biblioteca civica Berio – Genova (GE) 

Biblioteca Universitaria – Genova (GE) 

“… ricco di descrizioni d’ambiente ove è maestro, s’inseriscono qua e là motivi sottili e pronti; la scena nella sala dei ritratti è ricca di motivi chisciotteschi ed è condotta magistralmente. Tutto il è denominato da un motivo intensamente comico …”

  • IL GIARDINO DI ESCULAPIO. RIVISTA TRIMESTRALE  Omaggio prodotti Roche S.A – Milano, Redattore Capo: Dott. Roberto Isenburg, Responsabile: Nicola Moneta  (aprile 1938) RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso                        

Ettore Janni

  • Quaderni di poesia rivista letteraria              (maggio 1938)

FILIPPO PETROSELLI – Il fabbro meraviglioso – Romanzo – (Milano, Ancora, L.7)

L’umorismo di Filippo Petroselli non è caratterizzato soltanto – come spesso accade di riscontrare – dalla comicità di battute del dialogo, di stranezza dei nomi e delle macchiette e da simili particolarità di contorno. Questo contorno c’è ed è abilmente dosato nel Fabbro meraviglioso; ma l’umorismo vero consiste, qui, nella invenzione, nel nucleo concreto dei fatti che nel romanzo si svolgono, entro un’atmosfera caricaturale, esasperata sì, ma adatta – in complesso – a sferzare qualche lato del costume psicologico sociale della vita.

Si tratta, in poche parole, di una specie di follia collettiva, dalla quale un intiero paese, chiamato Ghia, viene colpito pel desiderio morboso di cui tutti gli abitanti di esso, uomini e donne, sono presi: abbellirsi, ringiovanire, liberarsi dei difetti fisici e delle tare dell’età, per riprendere in pieno le facoltà di godere, d’amare, di vivere.

Un certo mago ha operato il primo miracolo in persona d’un signorotto di Ghia, facendo scomparire una fastidiosa prominenza del mento da cui egli era afflitto; e dopo di lui tutti corrono all’assalto dei magici rimedi: cosicché si intrecciano episodi vari e numerosi e incidenti e lotte e delusioni, di cui la catena offre una lettura gustosa, fino alla conclusione, che è rappresentata dal ritorno al buon senso e alla normalità, soprattutto per la predicazione del curato e per la fuga del mago.

Le qualità di narratore del Petroselli sono anche in questo nuovo libro notevoli, per la felice dipintura di ambienti e personaggi, per la vivacità del dialogo, per l’arguzia delle osservazioni: si comprende come, dato il clima caricaturale in cui è posta la vicenda, non sarebbe logico pretendere un raffronto preciso dei casi svolti nel libro con le realtà della vita comune: e l’insegnamento dovrebbe venire appunto dalla molteplicità anzi dalla unanimità dei pervertimenti del desiderio di tanta gente, molteplicità la quale vuole adombrare l’esagerato attendersi di analoghi pervertimenti anche nella vita reale.

Però mi sembra che non si possa negare una qualche esuberanza nella dimostrazione risultante dal racconto: perché a Ghia si salvano dalla follia collettiva soltanto il vecchio medico (toccato negli affari con la sparizione della clientela) e il prete (cui la missione religiosa impone un contegno di riprovazione): è troppo poco; si potrebbe augurarsi che anche a Ghia, come in qualunque altro paese reale, la corsa verso certa psicopatia di moda non fosse proprio completa: qualche lampo di ragionevolezza e di senso comune brilla fra gli esseri della vita vera: e, se brillasse anche fra gli abitanti di Ghia, il quadro fantasioso del romanzo acquisterebbe – a mio parere – maggiore efficacia di satira.

Ettore Strinati

  • MODA. Rivista ufficiale della Federazione nazionale fascista dell’industria dell’abbigliamento Mensile, Roma /Milano   (maggio 1938)  – RICERCA IN CORSO                                                                                                           

Il fabbro meraviglioso 

“Petroselli è riuscito nel suo intento che era quello di scrivere un libro divertente: il suo stile è fresco ed immaginoso e non manca di una vena sottile di malinconia che diffonde ombre discrete sui vivaci sprazzi del suo umorismo … ”.

Olindo Giacobbe

  • A.B.C. RIVISTA D’ARTE, TORINO    (maggio 1938) – RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso

https://www.emerotecatucci.it/it/collezioni/periodici/abc-rivista-d-arte-torino

Con il Fabbro Meraviglioso, Petroselli ritorna al genere preferito, al romanzo umoristico, che individua così chiaramente la sua personalità di scrittore, personalità, diciamolo pure, inconfondibile … Un buon libro sano e vivificatore, da accogliersi incondizionatamente nelle nostre famiglie, nelle nostre biblioteche: libro che leggeranno con vera gioia spirituale quanti credono nella vita e che la vita vogliono migliorare con degne opere, chiedendo a Dio quell’aiuto che gli uomini non possono dare mai; quanti sogliono posare una rosa sulla quotidiana fatica.

ALFREDO VINARDI

  •  GLI ORATORI DEL GIORNO  (poi in Minerva rivista delle riviste 1938) (maggio 1938) 

Le toghe nel romanzo italiano

Plauto trova che il patrono “os habet, linguam perfidiam, malitiam”; Terenzio presenta un Desìmone, invischiato nelle reti di tre callidi legali – Egione, Cratino, Critone -; Ovidio opina che talvolta gli avvocati peggiorino le cause (“causa patrocinio non bona peior erit”): e poi Orazio, Marziale, Catullo, Plinio hanno da ridire sull’advocatus, che l’un trova enfatico, e l’altro vacuo, e l’altro immorale, e l’altro – come no? – un poco matto e talvolta … vile. E “vili nei perigli” anche Colletta chiama gli avvocati nella sua “Storia del Reame di Napoli”; ma sotto-sotto vi gorgoglia la polla della fazione, del risentimento politico, del settarismo rabbioso … ché vile non può essere davvero una missione onorata dai suoi martiri.

Tre secoli prima di Colletta, anche enciclopedico aveva guardato la giustizia con occhi sconsolatissimi; era Leon Battista Alberti: “Non bisogna chiamare giudici né notai né testimoni; non bisogna fare litigi, né altre cose dispettose e piene di turbinazioni: ché il più delle volte sarebbe meglio perdere che con tante molestie d’animo guadagnare. Messer Ludovico Ariosto, dopo aver studiato leggi o – com’egli dice – dopo aver “passato cinque anni a volger testi e chiose”, lamenta il tempo perduto “in queste ciancie”, e pace non se ne dà.

Veniamo a noi. Guerrazzi, letterato e patriota, in prima fila nei moti del ’48, ha l disavventura d’essere Ministro dell’Interno; in politica v’è sempre un avvocato all’opposizione, Guerrazzi se ne vendica con la penna: “Mentre un curiale col le spalle gobbe, gli occhiali sul naso, al chiarore d’una lucerna, sfoglia uno scrittore in traccia dell’autorità che valga a sostenere il suo assunto, e la trova; il suo avversario, curiale con le spalle gobbe, gli occhiali sul naso, al chiarore d’una lucerna, va squadernando il medesimo scrittore in traccia della dottrina contraria, e la trova”: quel che non si comprende è perché Guerrazzi voglia assolutamente gobbo l’uomo di curia (gobbo l’attore e gobbo il convenuto), mentre, ha tace d’altri, il suo quasi coetaneo Poerio è dritto – perbacco – come un’antenna.

Una cicatrice tuttora viva è il titolo d’Azzeccagarbugli elargito da Alessandro Manzoni: non meritato – a vedere in fondo – perché quel dottore del cap. III, lungi dall’irretire sofismi, dà il suo pare su una chiara e stampata “grida” dell’anno prima: 15 ottobre 1627. E, quando sa che egli dovrebbe difendere la causa contro Don Rodrigo, rifiuta sì il mandato, però fa restituire onestamente a Renzo i quattro capponi; anzi “Renzo voleva for cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile, e il giovine dovette riprendersi le vittime rifiutate”. 

Se l’abbate Parini rivolge un’ode alla Magistratura, Manzoni, pur pacifico, anche al magistrato assesta un colpettino quando, nelle “Opere Varie”, discorre di quel “giudice di pace” il quale ascolta un litigante e dà a questi ragione, e poi ascolta l’avversario e dà ragione anche a questi, e poi che il figliuoletto “alzando un visino stupefatto esclamo: – ma, babbo, non può essere che abbiano ragione tutt’e due! -, hai ragione anche tu! – gli disse il giudice”. In questo tema, Manzoni – chi lo direbbe? – diventa collerico; e basterebbe quel passo dell’ “Adelchi”, in cui si inveisce contro la “feroce forza” che “il mondo possiede e fa nomarsi diritto”. Certo, per questo, Renzo – partendo alla volta di Milano – riceve dal cugino Bortolo, il filato consiglio: “Cerca di schivare la giustizia, come io cerco di schivare il contagio”. Tuttavia lo stesso Manzoni alla Giustizia dovette ricorrere, per dare quiete a una sua ansia e dare pretesto a Mariano d’Amelio di scrivere un articolo fosforescente “Il ricorso in Cassazione di Alessandro Manzoni”.

Senza parzialità anche Giovanni Verga affascia magistrati avvocati poliziotti allor che, ne “I Malavoglia”, Don Franco va “in tribunale, in mezzo a tutti quegli sbirri”; e un quadro che non si dimentica è la famiglia di Padron ‘Ntoni innanzi all’avvocato. Più diffusamente nella novella “Libertà”, Verga descrive un’udienza penale: “Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. E i giudici? “I giudici sonnecchiavano dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore”.

Un avvocato Boglietti è nel “Daniele Cortis” di Antonio Fogazzaro: longanime cedevole paziente e cordiale. Un senatore gli dice: “Quella vostra lettera è d’una forma squisita. La sostanza pare un poco brigantesca, ma … -. L’avvocato, rosso come un papavero, voleva protestare. L’altro gli fé cenno di starsene cheto: – Ss! Non ci riscaldiamo … Oh santo diavolo, il diritto è della vostra parte. Volete che confonda un avvocato con un gentiluomo? –“. Questo senatore va boccheggiando fra debiti; bestemmia. Quando, nelle pagine di Fogazzaro, un personaggio giunge a bestemmiare, vuol dire ch’ è morso dalla più nera disperazione: perdonatelo. Si può aggiungere che Fogazzaro non dimentica d’essere stato tradito dalla professione dei codici: laureatosi in legge iniziò pratica presso l’Avv. Pompeo Castelli, ma il Castelli, dopo poco tempo, lo dissuase dal perseverare nelle pandette … E come no? Era accaduto semplicemente questo: che, un giorno, il cliente esponeva il suo caso al Fogazzaro, questi, distratto: – Ecco – ebbe a rispondergli – io non so che cosa dire: qui ci vorrebbe un avvocato.

Un’arringa, stagliata tutta in primo piano è nel romanzo “Al di là” di Alfredo Oriani: esiste per il penalista, una parola che raspi nel fondo delle passioni? Si ha l’amarezza d’accorgersi che un altro l’ha detta già prima, e quest’altro, al solito, è Oriani, il quale non è avvocato, ma è multanime artista e generoso, irriducibile polemista e di cultura latina, il che vuol dire avvocato e sommo.

Ferdinando Martini ha il gusto di riesumare vecchie storie giudiziarie, come quella del rivoluzionario Raspail che, condotto sul banco degli accusati, al Presidente il quale gli dice: – Raspail, alzatevi -, egli, offeso dal tono confidenziale, risponde: – Presidente, si è mangiato forse insieme la minestra di Luigi Filippo?

Poteva, tra i reperti della vita agitata, sfuggire l’avvocato all’arte di Luigi Pirandello? Non poteva. Ecco, per tutti, oltre la “Casa del Gravella” ne le “Novelle per un anno”, l’avvocato Ciro Coppa ne “Il turno”. Ciro porta in professione gli accesi riverberi della sua umana vicenda: è pletorico, collerico; è altezzoso come se guardi il mondo dalla torretta d’un castello svevo; è passionale spesso uno spirito di melodramma gli fa il solletico nelle idee; è soprattutto geloso, geloso da impazzire della moglie Stellina; diffida del suo amanuense, Pepé Alletto: la vita è un inferno, l’uragano lo investe, egli serra i denti. Ma come si può difendere l’altrui delitto se tutta la propria anima è bilicata sull’orlo del delitto? E un giorno, in Corte di Assise, l’Avv. Ciro Coppa, che ha ormai perduto il controllo, scaglia il calamaio contro il Procuratore del Re; accorrono i carabinieri, egli urla e si squassa come un toro piagato; a un tratto s’allenta, scivola; è il colpo d’apoplessia, l’ultimo rantolo.

Nelle opere di D’Annunzio folgorano possenti intuizioni di psicologia criminale; ma l’armamentario giuridico ricorre, solo e talvolta, per vaghi riferimenti, estetici e secondari.

Una vera celebrazione di processo, con precisa cura del particolare si svolge nel romanzo di Guido Da Verona “La danza davanti alla ghigliottina”: è il processo della spia Mata Hari, che il romanziere veste e sveste in fantasie iridescenti: bel fraseggiare, indove è difficile trovare i modesti limiti dell’umano connotato. Ma lo scrittore coglie istantanee essenziali quando s’aggira nel mondo della giustizia e l’arte vi respira: descrive “le veterane della femminilità criminale con la gola serrata dal nodo d’una sciarpa di seta, e la pelle incisa dai bluastri marchi della lue”: narra le ansie di un dibattimento; i testimoni perplessi, l’aguzzo cuneo dell’accusa che trova faticosamente la strada, i ribollenti sforzi della difesa, tutto quel che di fatale è sospeso sul destino dell’imputato: ed ecco l’esagitata arringa di Clunet, del vecchio avvocato che s’innamora della cliente e mette invano il pegno della sua canizie per difendere – con la donna sciagurata – la follia dell’ultimo suo errore e l’agonia dell’ultima illusione.

Nell’inquietudine di curiosità morali ch’è fra i segni dell’opera di Lucio D’Ambra, più di una volta si ha modo di passare per l’aula di giustizia. Mister Wisky, mio rivale, è la lunga allucinata difesa d’un omicida davanti ai giurati. Anche in “Storia di Monsieur Le Vent”, D’Ambra tesse le maglie della psicologia forense: la parola è a Roberto  Casaula, “penalista sublime, poeta della difesa, romanziere di Corte d’Assise”, il quale si imbatte in una rara tragedia d’avvocato. La tragedia sta nel dover difendere un uomo che vuole essere ferocemente condannato, far ottenere un minimo di galera a chi agogna il plotone d’esecuzione; ridare la vita a chi aspetta solo la morte: “anomalie della professione”.

Se dalle cupe atmosfere di “Monsieur Le Vent” si vuole dirompere in climi più elementari, ecco Rocco Blefari, un contadino de “Gli emigranti” di Francesco Perri. Rocco parla lento versandosi sulla palma un po’ di tabacco, non è mai salito sopra un treno, chiama gli impiegati “succhia inchiostro”; quindi il suo parere sugli emblemi della giustizia è antropomorfizzato, e l’irriverenza smaccata è solo scusabile con l’ignoranza presuntuosa: “Quando entrai nell’aula dove c’era la Corte, vidi in alto, appeso al muro, un Crocefisso … Ma sopra il Crocefisso vi era dipinta sul muro una bella donna … aveva un paio di poppe che sembravano quelle di Porzia Papandrea quando era verde … Teneva in mano una spada e nell’altra una bilancia. Mi hanno detto che era la Giustizia. Allora io compresi tante cose di questo mondo. Ditemi un po’: chi è che tiene la bilancia? I bottegai …”.

Un’udienza in Pretura, a Frusaglia, narra con innocente parodia Fabio Tombari: l’imputato non  è che un “ladruncolo di provincia”, ma la parte civile – poffarbacco! – ha un avvocato venuto di “fuori”, il quale afferma che l’imputato “è un soggetto interessantissimo dal punto di vista psicologico, o meglio frenologico”, e che egli ha dimostrato – dopo coscienti studi – “come il ladro non segua mai la linea retta per portarsi al luogo del furto o per sfuggirne” (anzi – a tale pubblica rivelazione – il brigadiere “sorrise come chi trovi finalmente in altri la propria verità”), e “voi, signor pretore, dovete pensare a quanti penarono per la giustizia, a quel povero Gregorio VII che muore in esilio per amore di giustizia …”.

Un’ironia amara dilaga ne “L’esperimento di Pott” di Pitigrilli. Pott è il presidente d’un tribunale francese la cui intelligente probità è vinta dalla burocratica ignoranza e dalla testarda incomprensione dei suoi due giudici, i quali “gli fanno maggioranza” (come si dice in gergo). Un giorno dopo vivace discussione in Camera di Consiglio, nella quale egli che voleva assolvere ha dovuto cedere alla forza del numero, legge in udienza la sentenza interpolando improvvise e orripilate motivazioni: “In nome, ecc., visti gli articoli, ecc., considerato che, ecc., e, soprattutto, perché il giudice che è seduto alla mia destra eè un cretino, e il giudice ch’è seduto alla mia sinistra è un altro cretino, voi, Maria Lanson, ecc., siete condannata a tre anni di reclusione, ecc. Avete tre giorni di tempo per ricorrere in appello, e vi consiglio di appellare, perché, fortunatamente non tutti i giudici sono come questi due”.

Dal tribunale si passa in Assise. Ci conduce Bruno Corra, il quale inizia il “Miracolo d’amare” con un processo d’omicidio. In Corra l’amor di toga dipende per li rami, ché il padre fu penalista eloquente; questo aiuta il romanziere a scrivere l’arringa di Salviati, “contando sull’effetto che un’orazione tutta luce immaginosa ed estro lirico deve produrre dopo tanta monotonia di logica tribunalizia”: talvolta, quando ci s’imbatta in giudici convinti che l’equità sia più grande della giustizia e la giustizia più grande della legge, talvolta l’effetto si avvera. Tuttavia Bruno Corra ha una recente “Trovata dell’avvocato Max”, ch’è una trista trovata, della quale gli avvocati non possono essergli riconoscenti. Un cittadino virulento di penna eppur probo di vita serena, medico e scrittore viterbese, è Filippo Petroselli: avendo deciso perentoriamente di essere sempre umorista, inserisce una pagina per gli avvocati, poco spiritosa davvero, ne “Il fabbro meraviglioso”. 

Benigno invece è Enzo Marmorale, che, ne “La nostra vita”, fa scrivere una lettera a un avvocato “un professionista che io non ho ragione di non pensare onesto e cortese” (Dio lodato! Ecco uno che non è convinto dell’ “advocatus sed non latro”).

Edwin Cerio, autodefinitosi baldanzosamente “editore del mare, del cielo e della terra di Capri”, in “Conserve ed affini” narra dell’avvocato Prospero Buonaccorsi, il quale parte dai diritti del codice per giungere alle purezze dell’asceta; in lui l’autore trasparentemente celebra la vita e l’opera di Bortolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei.

Ne “I Tormentati” di Mario Parodi, l’avvocato si affaccia rapidamente, per iscorcio di similitudine: “Dopo un minuto di conversazione con un parlatore stracco, Camillo tagliava così: – Concluda -. E se l’altro continuava a batter la campagna, diceva: – Non mi faccia l’avvocato”: tributo che ogni libro suole pagare al “luogo comune”.

Un altro romanziere invece, così ignoto che a nominarlo non giova, ha preso, dai saliti motti francesi, una figurazione da sartore: “Gli avvocati sono come le lame della forbice, che reciprocamente non si intaccano, ma tagliano chi vi passa dentro.

Giulio Caggiano, ne “Il romanzo d’un magistrato”, intende tessere l’apoteosi del buon giudice equanime, geloso del pubblico bene: attraverso l’episodio giornaliero, la contingenza familiare, il frammento intimista, fa luce la silenziosa virtù d’un magistrato che trova solo nelle intime risorse il conforto della sua dura e ardua fatica.

Nel teatro.

Se dal romanzo si passa al teatro l’abbondanza non scema, e si potrebbe iniziare da Aristofane, che ne “Le vespe” tratteggia tipi e episodi giudiziari e castigando, come il motto vuole.

Carlo Goldoni esordì vestendo toga (Mario Cevolotto ha dedicato un curioso volume a “Goldoni Avvocato”), e nell’atto di morte trascritto a Parigi è ancora indicato come “homme de loi”. Goldoni dive di avere, ne “L’Avvocato veneziano”, onorato la toga “ di bella comparsa”, tuttavia egli non sfugge alla tentazione della lepidezza facile, quando, dopo il processo, Arlecchino, saltellando, dice che han vinto gli avvocati e, obbiettando Colombina che “avrà vinto uno dei due avvocati”; “Sior no – replica Arlecchino – i avrà vinto tuti do, perché i sarà stati pagadi tuti do”.

Fra i tanti, e veramente tanti, che hanno portato l’avvocato sulla scena, si posson ricordare alcuni fra gli egregi. Giuseppe Giacosa svolge i “Tristi Amori” dallo studio alla casa d’un avvocato; un avvocato è fra i personaggi essenziali de “La Madre” di Giannino Antona Traversi; giudici e avvocati passano in “Occhio di pollo” di Lorenzo Ruggi; in “Quella” di Cesare Giulio Viola e in “Fiore sullo stagno” di Giovanni Cenzato s’incontra lo stesso tipo d’avvocato, rifatto in più alta umanità dalle esperienze del suo lavoro e della sua pena, incline a superare col perdono il male della donna e lo schiaffo della vita; il duetto consueto tra avvocato e dattilografa, ravvivato da casi complicatissimi che si sciogliono in lieto fine e onesto, dà motivo al “Lascia fare a Ninì” di Mazzolotti; “L’Avvocato Spezzaferro” di Campanozzi è il solito calco letterario del mestierante e faccendiere e cavilloso, aiutato da don Vincenzo, il produttor di cause (e – ahimè, questo sì! – non si può dire che don Vincenzo non prosperi anche nella vita vera, triste fungaia dura a morire); un magistrato è fra i protagonisti di “Mimosa” di Guglielmo Giannini (ne sarebbe consigliabile la lettura ai Pubblici Ministeri draconiani, un poco prima di pronunciare la requisitoria). Non si dice del teatro giallo, dove l’avvocato è quasi sempre un personaggio d’obbligo. E ancora … Ma occorrerebbe un volume per l’elenco, com’è occorso a Giovanni Ortolani, il quale, valente in toga come in lettere, ha appunto pubblicato un ghiotto libro su “L’avvocato alla luce della ribalta”.

Conclusione.

In definitiva, come può rilevarsi da questa stessa rassegna la quale vuole essere solo un campionario, l’avvocato nella letteratura italiana è trattato con minore irriverenza e con maggiore comprensione che non nelle letterature straniere: segno della civiltà che nasce da Roma.

Perché l’avvocato ha una funzione sociale e umana alla quale anche gli iconoclasti sono costretti a convertirsi. Napoleone, un mattino ch’era di cattivo umore, manifestò l’estroso desiderio di tagliare la lingua a ogni avvocato (“qu’on pût coupé la langue à tout avocat”); ma al 22 Ventoso ne ricostituì l’Ordine. E Payen, ne “Le Barreau”, soggiunge “Sembrò a Napoleone che l’opera dell’avvocato fosse la più idonea a coltivare il desiderio di conciliazione, l’amore per la vera giustizia, l’indefettibile tutela per i deboli e gli oppressi”.

Titta Madia

  • LA TRADIZIONE PALERMO. Rivista di storia, filosofia e letteratura, CATANIA                                   (maggio-giugno 1938)            RICERCA IN CORSO     

Il fabbro meraviglioso            

“È un romanzo umoristico moderno, d ‘un umorismo efficace, improntato al buon costume e alla più perfetta umanità, scritto con la coscienza di un uomo che ha di mira il bene del proprio simile e sa maneggiare i ferri del mestiere, nel significato vero della parola. Troviamo in questo libro anche uno stile fresco ed un periodare garbato e facile; onde forma e contenuto si amalgamano e divertono il lettore. È tempo ormai di riconoscere in Filippo Petroselli le caratteristiche essenziali d ‘uno scrittore d’avanguardia, d’uno scrittore che merita di figurare accanto ai nostri migliori … ”.

  • PRO FAMILIA, Brescia          (giugno 1938)     RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso            

“Certe figure danno l’impressione di essere colte dal vero e viste con l’acume di un Parini, e per la vivezza della prosa scorrevole, bella e facile del Petroselli, non si dimenticano più. E l’umorismo che pervade tutte le pagine di questo romanzo è quello di essere di casa nostra, che fa buon sangue e lascia gli occhi lucidi di gaudio”. 

Idilio Dell’Era 

  • IL TIRO A VOLO, Roma        (giugno 1938)     RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso

“Petroselli pubblica un nuovo romanzo, romanzo umoristico che ha una sua singolare fisionomia briosa e tanta varietà di vicende da rendere la lettura allettante e piacevolissima. Il Petroselli, umorista di feconda vena, sa trarre dalla natura umana gli aspetti più caratteristici e sa farli brillare con incandescenze ben intonate. La riproduzione di tipi, la illustrazione di episodi, la immaginifica costruzione dell’intreccio, rivelano lo stile inconfondibile del Petroselli, la facondia, la grazia e l’arguzia del suo linguaggio”. 

  •  MALATI MEDICI E MEDICINE. RIVISTA MENSILE DI CULTURA MEDICA. Torino (giugno 1938)      RICERCA IN CORSO

recensione                  Il fabbro meraviglioso                        

“La sua qualità (dell’autore) di psichiatra e neurologo l’ha certamente aiutato nella descrizione di tipi e caratteri amenissimi … Il «Fabbro Meraviglioso», che si legge volentieri, rivela le qualità di prim’ordine dell’autore … ”.

dott. Ellen

  • IL LETIMBRO, bisettimanale cattolico, Savona  (giugno 1938)   RICERCA IN CORSO

“Petroselli ci ha dato un’altra sua opera in cui il critico conferma con piacere le belle doti del narratore de « Il Sole Malato » e di « Ruzzante ». Stile spigliato, umorismo sano, spiritualità sentita …”. 

  • L’ADRIATICO. SETTIMANALE DELLA FEDERAZIONE PROVINCIALE FASCISTA DI PESCARA            (agosto 1938)     RICERCA IN CORSO

“Questo «Fabbro Meraviglioso» come i precedenti di questo forte scrittore è fresco e sano … è un libro di quelli che si leggono e si conservano in biblioteca e si rileggono con rinnovato godimento …”.

G. Rini

  • LA RASSEGNA ITALIANA POLITICA LETTERARIA ARTISTICA Fondata e diretta da Tomaso Sillani (agosto/settembre 1938)          

Filippo Petroselli: Il fabbro meraviglioso (Milano, ed. Ancora 1937 – L. 7)

Del Petroselli è già stato segnalato in questa Rassegna il racconto paesano e umoristico Ruzzante. In questo “romanzo umoristico” come è definito Il fabbro meraviglioso, la vena comica dello scrittore continua a mostrarsi ricca e spontanea, pur assumendo intenzioni e significati più trasparenti che non nel primo libro; e appunto perché, più trasparenti, non faremo ai lettori il torto di spiegarli qui. Ciò che si vuole invece notare, è la singolare arte di questo scrittore che con mezzi leggeri, con un fare di narrazione rapida, senza indugi, senza digressioni e analisi, anzi con l’apparenza di chi sia troppo preso dai fatti (il libro è tutto fatti e tutto raccontato) riesce a individuare i suoi personaggi, se non nel più complesso senso psicologico – che sarebbe eccessivo per il tono umoristico – certo come tipi, colti abilmente nei loro caratteri e svincolati da ogni convenzionalismo perché messi in funzione di un racconto che non ha nulla di veristico e di bozzettistico. Semmai dai bozzettisti il Petroselli ha derivato, come altra volta notammo, lo stile; ma libero da ogni grevezza dialettale, egli è riuscito a una scrittura agile, rapida, disinvolta e discorsiva, ricca di articolazioni, inflessioni e scorci, tuttavia in queste sue qualità così misurata da non ingenerare mai sazietà. Uno scrittore di vena facile, ma equilibrata e robusta: tale apparve fin dall’inizio il Petroselli e tale si conferma in questo nuovo libro arguto e divertente.

Salvatore Rosati

  • LA NOUVELLE REVUE CRITIQUE, PARIS  (settembre 1938) RICERCA IN CORSO

            Il fabbro meraviglioso                        

… où je retrouve la verve et l’esprit du fameux Ruzzante;

LUCIEN LELUC

  • LA DONNA ITALIANA         (novembre 1938)   

Filippo Petroselli: Il fabbro meraviglioso – editrice Aurora (SIC) Milano

Gli elementi che difficilmente si trovano in una sola opera sono riuniti in questo snello volume, che non smentisce il suo titolo: Il fabbro meraviglioso. L’umorismo, a volte più sottile di quel che non voglia parere, è ingentilito da una improvvisa malinconia, il pomposo trova argine nel familiare. 

Notiamo che questo piacevolissimo autore, intento ad ammanirci da vari anni libri di amena letteratura (e dico amena nel senso più proprio e pieno), rivela, quando meno si aspetta, il suo spirito contemplativo e dipinge con tocchi magistrali, spesso sfumati, talvolta violenti, la bella natura in mezzo alla quale svolge i suoi spontanei intrecci. Dico spontanei, perché appunto dalla spontaneità le sue favole hanno la fresca naturalezza, ma in realtà son ben ponderate e contrappesate. 

Come nei precedenti suoi romanzi, principale “Ruzzante” (Bemporad) libro indimenticabile che tanto favore incontrò anche all’estero e che ora è scelto in varie scuole, i personaggi spiccano vivi e parlano con naturalezza, ognuno in coerenza col ruolo rappresentato. Gustoso Don Gebboso (cioè il bazzuto) fine e spiantato, sentimentale e scettico. Un po’ fantastico come si conviene a un autentico orientale, Sidi Beddel, il fabbro meraviglioso che guarisce gratuitamente ogni imperfezione e rende belli. Grossolane le Lupino (rozze per cecagne eredi del congiunto impostore e avaro arricchito a furia di sleali astuzie), meno quel bocciuolo di tenera grazia che è la figlia minore, Leandrina, assunta a orientale visione opalina al XXII capitolo, nel quale ha luogo la movimentata scena del ratto incoronata dal tragico quanto mai poetico epilogo della morte di Sidi Beddel, che l’amore lancia verso le stelle e il fuoco precipita in mare.

L’autore prende per mano i suoi personaggi e li cura e li accarezza, li accompagna, facendocene sapere fino all’ultimo la sorte, come nei romanzi del bel tempo antico, i quali lasciavano soddisfatto il lettore, mentre quelli moderni sul più bello lo piantano in asso. Disorientato, con tanto di broncio. 

Ne consegue che anche i personaggi secondari e perfino le macchiette, risaltano in rilievo, quali il maresciallo Cotegù l’omaccione tagliato con l’ascia, rigido, macignoso, dagli speroni tintinnanti e dal cervello grosso, e Saltimpalo il capostazione dalle orecchie spampanate, e la Germana miope dedalo di grinze e Maldia il vecchio gobbo usuraio e donna Ada l’aristocratica zitella bazzuta che cammina in punta di piedi e riceve ad occhi bassi i domestici ordini del fratello e tanti altri, tutti ben disegnati e viventi …

La presentazione di Don Gebboso è un piccolo capolavoro e spassosa riesce la descrizione della vita familiare del principe decaduto, che deve lucidarci da sé gli stivaloni mentre la donna di servizio sonnecchia, causa le quattro mesate insoddisfatte. E così eccolo ridotto a sostituire l’atavico brando delle crociate con la spazzola delle scarpe!

Delicatissima al cap. XIII la scena confidenziale fra l’arabo e il principe e fantastica l’ipotesi notturna di Don Gebboso e di Sidi Beddel, contro la quale si frange la rabbia impotente del ligneo maresciallo. Esilarante soprattutto la trovata del verbo nuovo che a poco a poco si fa strada nel paese di Ghia e dilaga, diventa fiumana: beddelare, cioè trasformare, dal fabbro meraviglioso, Sidi Beddel; finché tutti prendendo, secondo la loro età e il loro sesso, la stessa altezza, corporatura e fisionomia, vengono a costituire un unico tipo di bellezza con conseguenti equivoci più o meno risibili.

Al vedersi tutti ugualmente belli, il brutto microbo che ha sempre fatto strage dell’umanità, s’infiltra velenoso nel primo tranquillo paese: l’incontentabilità del proprio stato. Si mettono in testa, i paesani, di voler diventare uno più bello dell’altro; e, siccome la magica scienza dell’arabo è impotente a ciò, cominciano a pigliarlo in uggia e a manovrare per tirar giù dal piedistallo il grande idolo. 

Don Anselmo, aspetta al varco gli incauti e malcontenti beddelati, e, definendosi figlio di Parlachiaro tuona dal pulpito contro il suo gregge, che doveva la propria bruttezza primitiva ai mali assortiti matrimoni, causati dall’avidità del denaro, di cui si burla l’autore, dalla smania per la  robbba (con tre b) che doveva restare in famiglia, raddoppiarsi e triplicarsi.

La morale della favola è che bisogna contentarsi del proprio stato, se vogliamo raggiungere quella felicità che è possibile in terra.

Concludendo questo Fabbro Meraviglioso, originale, piacevolissimo e scritto in ottimo italiano, è tutto pervaso da uno schietto umorismo che diverte, rallegra e rende migliori.

  • USMI QUADERNI DI POESIA. Rivista letteraria, mensile a cura di Mario Gastaldi (novembre 1938)

Il fabbro meraviglioso                        

Filippo Petroselli: Il fabbro meraviglioso (romanzo umoristico). (ed. Ancora, Milano L. 7)

Il noto autore di Ruzzante, scrivendo questo nuovo romanzo, ha voluto non soltanto divertire gli altri, ma divertire se stesso. Quel Sidi Beddel, che ha il magico potere di guarire tutti, di far scomparire la deformità, di donare a chiunque la bellezza rivoluzionando un intero paese, è di una spassosità divertente. Gli episodi, che s’intrecciano e si rincorrono, sono esposti con un brio ed una vivacità da illudere chi legge di trovarsi davanti a una tela sulla quale si svolga il più indiavolato «film».

USMI

  • IL RAGGUAGLIO LIBRARIO. Rassegna mensile bibliografico-culturale (dicembre 1938) RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso            

Ironia di procedimento sciolto e piacevole …

Edoardo Fenu

  • Nuovo Abruzzo. Il nuovo Abruzzo. Settimanale del partito nazionale fascista per la provincia di Chieti  (1938)     RICERCA IN CORSO

recensione                  Il fabbro meraviglioso             

“Romanzo dinamico, allegro, denso di episodi dai quali balza perfetto lo stile del Petroselli affinato da un lavoro di continuo superamento e che può ormai dirsi pienamente riuscito …”.

1939


  • MERIDIANO DI ROMA, Roma        (marzo 1939)      RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso

“Anche in questo libro abbiamo un complesso che s’impone e vi leggiamo pagine dai dialoghi spigliati, dagli episodi ruscellanti di buon umore …”

  • LA PROVINCIA DI BOLZANO       (gennaio 1939) RICERCA IN CORSO

Il fabbro meraviglioso

“Romanzo pieno di sano umorismo interessante e piacevolissimo, ma – ciò che più conta – assai morale. È perciò da raccomandarsi ai giovani”.

GINO ROVIDA

  • MERIDIANO DI ROMA. L’ITALIA LETTERARIA, ARTISTICA, SCIENTIFICA Settimanale 1936-1943 (marzo 1939)    

Collana madre: La Fiera Letteraria, Diretta da  Giovanni Battista Angioletti, direttore dal 1936 al 1938 – Cornelio Di Marzio, direttore dal 1938 al 1943

NARRATIVA                 Un romanzo di Filippo Petroselli                               

“A breve distanza dai romanzi “Ruzzante” e “Il sole malato”, Filippo Petroselli pubblica un altro romanzo umoristico: “Il fabbro meraviglioso”. Anche in questo libro abbiamo un complesso che si impone, e vi leggiamo pagine dai dialoghi spigliati, dagli episodi ruscellanti di buon umore. Ecco un cenno della trama del romanzo.

Don Gebboso è il principe, ora “spiantato”, di Ghia. In causa della deformità del suo mento non trova da far bene, come si dice, nel ceto delle pulcelle da marito, che possano portar seco una buona dote. Certo, perché il suo gran pensiero è di rifornire il portafogli ridotto al verde. Nel frattempo, alla radio viene a sapere che a Firenze l’arabo Sidi Beddel ha trovato un composto che, opportunamente iniettato, può ricostruire, abbellendole, le forme umane. Ricorre subito allo specifico, per cui riesce ad avere un naso regolare, passabile. Ed ecco che Sinfarosa, che di lui non volle mai sapere, se n’innamora, e lo sposa, portandogli una consistente ricchezza. Allora tutti gli abitanti di Ghia sono in fermento, reclamando per essi la cura delle loro bruttezze fisiche. Ed il mago arabo li accoglie, mirando soprattutto all’amore di Leandrina, sorella di Sinfarosa: ma nessuno rimane contento, anzi ne seguono lagnanze e disperazioni comiche. Tutto poi finisce per il meglio, com’è giusto e come era da attendere.

Come si vede, il romanzo è sostanzialmente umoristico. C’è anche una finalità morale; e consiste, crediamo, in quella conoscenza pratica degli uomini, che fa dire allo scrittore molte verità che sono altrettanti grani di sapienza. La verità che informa tutta la scena e l’azione è questa: ogni uomo, appena scorge un filo di speranza, vi si abbranca come a una corda; ogni uomo e ogni donna vorrebbero primeggiare anche nella vita esteriore, e potendo, combattere la natura che con loro non è stata prodiga di bellezza. Tutto va bene: ma le ambizioni non sono superiori alle forze disponibili?

Sotto il riso, possiamo riscontrare anche un intento di altro ordine, che chiameremo eugenetico. Il quale oggi è di moda. Nel romanzo sono figure descritte con abilità, e fermate nelle loro caratteristiche più clamorosamente ridicole. Prima fra tutte, quelle di Don Gebboso. E poi il maresciallo Cotegù, Leandrina, Sinfarosa, donna Isabella, la Costanza, Sidi Beddel, donna Ada, il dottor Anselmo, ecc.

Un mondo variopinto, scherzevole, irrequieto, che si trasforma e si completa come in un caleidoscopio. Il romanzo si fa leggere volentieri appunto per questa vivacità fresca, e sempre onesta e bonaria. Armando Zamboni

F. Petroselli, Il fabbro meraviglioso, Ancora ed. – Pavia 

Armando Zamboni

(In prima pagina del settimanale un articolo dedicato alla Carta della scuola, redatta dal ministro Bottai)

  • LE CRONACHE SCOLASTICHE. Rassegna quindicinale dell’istruzione media, Roma                                                                        (marzo 1939)    RICERCA IN CORSO

È un romanzo umoristico, vivo e piacevolissimo. Ci sono delle figure e dei tipi vivi, ritratti con arte fina. Questo libro si può mettere con profitto in mano ai giovani, come tutti di questo autore …”.

  • DANTE. « Bulletin mensuel de culture latine » / « Organo del Comitato di Parigi della Società nazionale Dante Alighieri », Paris (mars-avril 1939)

Filippo Petroselli, Il fabbro meraviglioso, Editrice Ancora, Milano

Sous le titre on lit en petits caractères “roman humoristique”: simple indication, qui, à elle seule, explique le livre et aiguille le lecteur.

Filippo Petroselli a laissè courir à bride abattue son imagination, sa fantaisie, à tel point que nous parierions volontiers qu’il a écrit ces 250 pages d’un seul jet, en se jouant et en souriant. Le résultat est excellent. En un style nerveux, bondissant, le jeune auteur brode une facétieuse histoire: au village de Ghia, un mysterieux arabe, Sidi Beddel, inculque aux habitants une superbe et identique beauté grâce à … des injections de laitue. C’est une idole: chacun veut être “beddelisé”! Mais, bientôt les villageois trouvent leur perfection physique ennuyeuse, les femmes se jalousent, les esprits se montent. Après la gloire, l’étrange musulman connaît le declin: on le chasse. Le calme renaît alors au pays: on célèbre des mariages et des baptêmes. Bref, tout est bien ce que finit bien. Petroselli s’amuse des avantures racambolesques des ses propres personnages: sa verve pétillante et le mordant de son humour en sont la prevue. Aux heures où la fatigue, les soucis, le cafard nous assaillent, la compagnie di “Merveilleux artisan” nous délassera, nous charmera et nous communiquera – ô bienfaisant tonique – sa rayonnante bonne humeur. 

Michel Pillot

  • Turismo d’Italia                                                                        (agosto 1939)

Filippo Petroselli, Ruzzante, Ed. Marzocco, Firenze 

Il fabbro meraviglioso, Ed. Ancora, Milano

La produzione di quell’originale e solitario narratore che è Filippo Petroselli è ormai ragguardevole e degna di tutta l’attenzione e preferenza dei lettori, come già lo fu e lo è da parte dei critici più illustri soprattutto di quelli di fine gusto e di vista panoramica, tra i quali primissimo Ercole Rivalta.

Dal giovanile lavoro “La Via”, raccolta di novelle allegoriche e morali, dove già è in germe il futuro scrittore forte, completo e significativo, che fu allora lodata dal Mazzoni come geniale ed originale, a questo ultimo scintillante e piacevolissimo “Fabbro meraviglioso”, le qualità e le doti narrative di questo scrittore-poeta si sono andate sempre più consolidando ed affinando in opere d’arte certamente vitali.

L’Ampolla della Gioventù fu la sua prima affermazione per solidità di costruzione ed originalità di ispirazione. Questo volume ebbe ottima stampa e vasta risonanza nel mondo delle lettere e dei lettori.

Con “Il Sole Malato” (Edizioni Ancora Milano) libro definito dalla Deledda, pure così severa nei giudizi, “originale, profondo e ricco di umana idealità”, l’autore in un reale-fantastico, un grandioso bianco e nero, venato, soprattutto nella prima parte di fresco umorismo, tocca i più alti problemi morali, sociali e dello spirito, presentandoci tante ed inconfondibili persone dell’immediato dopoguerra, vive tutte delle loro passioni, dolori e desideri; e nella commovente sintesi aspira alla pacificazione dei popoli alla quale prima o poi dovranno pur giungere. La morte del vecchio pensionato, signor Donato, cacciatore ed amatore timido e di poca fortuna, tocca i vertici dell’arte narrativa per semplicità, evidenza e pathos. Nel “Ruzzante” (Editrice Marzocco, Firenze) opera festosissima ed originale costruita con scultoreo stile descrittivo e che ora, lodevolmente, va entrando nelle scuole medie come libro di lettura e compare a brani in antologie, la completezza artistica del Petroselli è evidente. In Italia e fuori critici illustri hanno ammirato questa scintillante storia dell’asino geniale e dei suoi padroni, le loro briose, spassose e straordinarie avventure, come uno dei più belli e solidi libri usciti nel dopoguerra: libro destinato a dilettare ed istruire piccoli e grandi. Non solo oggi, Cesareo a proposito di questo libro, fece il nome di Dickens, i critici letterari dell’ “Ora” e dell’ “Osservatore Romano” quello del Cervantes … Col recentissimo “Fabbro meraviglioso”, l’avventurosa storia di Ghia, paese dell’Italia media, per vivezza di descrizioni, originalità di persone, finalità morali, intreccio semplice ed umano e vero umorismo scoppiettante senza tregua, l’autore prosegue per la sua via, senza badare a stranezze e volubilità di moda. È  fedele solo al suo credo artistico: l’arte deve essere, quella vera, la nobile consolatrice della vita, nei tanti piccoli e grandi guai dell’esistenza.

Questi i lavori principali. Ma poi innumerevoli sono le novelle, i brani di prosa (notevole “Sole e cenere” ossia l’interessante racconto, cui è sfondo la spaventevole fine di Pompei), sparsi su riviste e giornali, scritti attesi, ricercati, perché ricreanti per la vivezza ed originalità degli argomenti e per la manzoniana arte di svolgerli e di esporli. Ed anche brevi poesie e poemetti si trovano purtroppo ancora qua e là non raccolti in volume. Notevoli per l’ispirazione, i poemetti per la Bisentina e la Martana, isole del lago di Bolsena. In quest’ultima è descritta, commovendo profondamente, la fine su quel solitario scoglio della regina Amalasunta fatta relegare colà dal marito Teodato.

Più che tante bolse riscritture ed avvelenanti immoralità tradotte, i volumi del Petroselli, tutti solitamente costruiti con semplicità di stile in puro e sonante italiano, tutti divertenti e sereni, interamente ispirati alle idealità di famiglia e di morale, pervasi tutti da un vago e ricreante senso della natura e da ottime descrizioni dei nostri paesaggi, non dovrebbero mancare in ogni biblioteca di persona colta e tanto meno in ogni casa desiderosa del bene e dell’avvenire dei figli. 

A. Giurelli